ponteille.
scusate, ma il ristoro è stato uno dei 3-4 migliori del tor (venerdì alle 22).
vero è che c'erano finestre rattoppate, ma i gestori ci hanno offerto una polenta addirittura migliore di quella di niel.
poi vino e limoncino (e questo passi, non a tutti può essere gradito), ma soprattutto hanno sfolgorato un piattone di pesce di mare appena cotto e abbrustolito che ha lasciato di sasso tutti i presenti.
io ero stanco come altri, ma non solo per questo ci siamo fermati almeno mezzora.
anche per parlare con le persone (giovani e meno giovani) che animavano il posto.
davvero, una bella esperienza, mi spiace che altri abbiano avuto un brutto ritorno, io mi ci sono trovato benissimo.
poi, magari sono capitato là in un momento fortunato, non voglio criticare chi ha avuto un'esperienza diversa.
diciamo anche che nell'arco di 4 giorni (alla fine del tor i posti ricevono gente su un periodo molto largo) purtroppo può capitare che le stesse persone siano accoglienti o scontrose.
Tor Des Geants (Ao) 10-16.09.2023
Moderatore: maudellevette
Regole del forum
Questa sezione è dedicata alle anteprime e ai racconti delle gare.
Nel titolo scrivete il nome della gara, la provincia e la data di svolgimento.
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Nel titolo scrivete il nome della gara, la provincia e la data di svolgimento.
Re: Tor Des Geants (Ao) 11.09.2022
Scusatemi tutti.
Non volevo farmi desiderare!
Sono stato incasinato con il lavoro e alla sera ero troppo stanco
per trovare la concentrazione per raccontare la settima e ultima tappa.
Il finale per me era la parte più difficile da raccontare e volevo riflettere bene su quello che avrei scritto.
Inoltre avevo paura che raccontando onestamente e integralmente i fatti avrei fatto preoccupare persone a cui voglio bene
come mia moglie e mia madre.
Comunque finalmente ecco qua il racconto delll'ultima maledetta tappa del mio Tor 2022:
Non volevo farmi desiderare!
Sono stato incasinato con il lavoro e alla sera ero troppo stanco
per trovare la concentrazione per raccontare la settima e ultima tappa.
Il finale per me era la parte più difficile da raccontare e volevo riflettere bene su quello che avrei scritto.
Inoltre avevo paura che raccontando onestamente e integralmente i fatti avrei fatto preoccupare persone a cui voglio bene
come mia moglie e mia madre.
Comunque finalmente ecco qua il racconto delll'ultima maledetta tappa del mio Tor 2022:
Re: Tor Des Geants (Ao) 11.09.2022
Settima tappa - OLLOMONT - COURMAYEUR
Sottotitolo: “Un po’ di dissenteria non ha mai ucciso nessuno…”
Sono alla base vita di Ollomont.
So che per finire il Tor des Geants ho bisogno di un obbiettivo, piccolo o grande che sia. Può essere nobile o futile, ma deve esistere, almeno nella mia testa, deve esserci, ne ho bisogno. Quando sono sfinito, a pezzi e andare avanti è un’impresa, quando devo trovare la forza di soffrire e fare quella serie di piccoli passi che mi porteranno al traguardo, ho bisogno di una motivazione.
Non me la possono dare gli altri, devo trovarla io: dentro di me!
Quest'anno il mio obbiettivo (il futile stare sotto le 120 ore) é diventato irraggiungibile.
Non per colpa mia...avevo programmato e fatto tutto per raggiungerlo (le 4 A: Allenatore, Alimentazione, Attrezzatura, Allenamenti): ma ci sono cose che non dipendono da noi, la fortuna è per metà arbitra del nostro destino, ma ci colpisce là dove non abbiamo costruito argini o ripari (cit. Macchavelli). Questo vale nella vita come al Tor. Per questo il Tor mi piace così tanto e me ne innamorai la prima volta: è una metafora della vita, ma in miniatura: tutta una vita in 5 giorni!
Io avevo costruito argini e ripari (le 4 A) ma la fortuna non è stata dalla mia parte.
Non importa, se un obbiettivo sfuma, è fondamentale sostituirlo subito con un altro, diversamente potrei mollare, ritirarmi, non troverei la forza di arrivare al tragurado.
Per fortuna il nuovo obbiettivo è chiaro nella mia mente, arrivare almeno entro le 130 ore, così potrò fare il Tor des Glaciers (in realtà non mi interessa fare il Glaciers ma mi serve crederlo per dare valore al nuovo obbiettivo).
Per raggiungere l'obbiettivo non potrò più sbagliare e perdere tempo: dovrò fermarmi a Ollomont il meno possibile. Mi do 45 minuti. Pochi per ricaricarsi dopo la travagliata sesta tappa ma basteranno: devo solo mangiare, cambiarmi, ricaricare le borracce e rifare lo zaino allegerendolo al massimo.
Ollomont è la base vita più piccola e logisticamente peggiore del Tor, ma non c'è problema, mi metto su una brandina libera. Di spazio alla fine ce né perchè in gara di concorrenti ne sono rimasti solo 2/3 e la pamcia della gara è più indietro!
Esclusi alcuni i ristori è sicuramente la base vita con il cibo migliore: abbondante e vario. Riesco a mangiare tanto e bene. La dissenteria sembra un lontano ricordo,
mi sento bene e ho ricaricato le energie. Ora si tratta solo di cambiarsi e alleggerire lo zaino. Ma prima, do un'occhiata veloce ai siti internet delle previsioni meteo più generalisti (quelli che guarda anche mia madre): 3B-meteo e Ilmeteo.it.
Sembra che qualcosa stia cambiando: stanotte e domattina potrebbe piovere e nevicare in quota (con accumuli nevosi). Per scrupolo chiedo al responsabile della base vita informazioni più precise (e attendibili). Soprattutto voglio capire se dobbiamo prendere i ramponcini e il kit invernale. La risposta è perentoria: “Assolutamente no! È previsto freddo e al massimo un po' di nevischio, ma niente accumuli nevosi…, tranquillo!"
Mi fido (perché non dovrei? È un professionista e si affida a previsioni professionali) e non prendo i ramponcini...lo zaino deve essere il più leggero possibile.
Le gambe stanno bene e voglio correre il più possibile per raggiungere l’obbiettivo 130h.
Sono convinto di poterlo raggiungere e per un attimo (nella foga agonistica sto dimenticando anni di esperienza in montagna) penso di lasciare anche la frontale di riserva, il piumino e i pantaloni pesanti nella borsa gialla. Per fortuna una vocina mi dice: “Che cazzo stai facendo!?!” e riacquistato un po’ di buon senso lascio nella borsa gialla solo le borracce di riserva (ne tengo solo 2 invece delle solite 4), le riserve alimentari extra regolamento, il mio pesantissimo kit di pronto soccorso e i vestiti di ricambio.
Così lo zaino è molto più leggero (un paio di chili), ma allo stesso tempo non rischio di trovarmi impreparato in caso di maltempo o imprevisti.
Sono le 9:20 quando riparto combattivo e determinato come mai.
Sono rimasto fermo solo 53 minuti, 8 minuti più di quanto mi ero prefissato.
Affronto la salita verso il rifugio Champillon con passo deciso, lo spirito agonistico si è risvegliato dentro di me e mi sento forte e agguerrito.
A metà della salita mi distraggo osservando dei pastori che stanno addestrando due cani a prendersi cura delle mucche. È uno spettacolo vedere l'abilità e l'intelligenza con cui imparano a radunare la mandria.
In vista del rifugio vengo affiancato da un fotografo e un video-operatore su un suv che stanno facendo un reportage su dei concorrenti cinesi. Invece di riprendere i cinesi (che arrancano stravolti) cominciano a fotografare e riprendere me che sto salendo a buon ritmo. La cosa gratifica il mio ego e vado contro il mio unico principio al Tor: non correre mai in salita. Però sto bene e vorrei spaccare il mondo, quindi comicio a correre fino al rifugio Champillon. Da Ollomont ci ho messo meno di 2 ore per salire.
Scherzo e rido con la ragazza del rifugio Champillon che si occupa del ristoro e seguendo il suo consiglio...(errore madornale) mangio ben due piatti della loro famosa zuppa di verdure. Non è una grande idea quando uno ha appena avuto la dissenteria solo poche ore prima... ma, al momento, non mi accorgo di niente, non ci penso e ne apprezzo solo la bontà. Il ristoro non è dentro il rifugio come gli altri anni ma in un locale a parte, un pezzo di stalla ristrutturato. Chiedo all ragazza se è una scelta dovuta al Covid, ma mi spiega che hanno messo il ristoro in un’area separata perché vogliono che sia chiaro che è una cosa a parte, non vogliono che sembri una loro gestione. L'organizzazione ha fornito quantità e varietà di cibo e bevande veramente minime.
Loro hanno fatto la zuppa a loro spese solo perché è sempre stata una tradizione del rifugio. Le dico che non capisco come sia possibile visti i soldi che incassano con le iscrizioni (900 euro a cranio!). Lei mi racconta (storia che in Valle gira già da un po’) che il Tor X è stato venduto ai cinesi e che quindi essendo l'ultimo anno in cui è gestito dalla VDA Trailers, questi ultimi vogliono guadagnare il più possibile.
Non so se questa storia sia vera, ma gli indizi sono tanti. È innegabile che il Tor non è più quello di una volta (a parte i volontari che sono sempre eccezionali) e non mi riferisco ai primi Tor ma faccio il paragone con quello del 2018: cibo scarso e poco vario, inefficienze organizzative, errori nel comunicare alcuni chilometraggi durante il briefing, mancanza del tracker GPS (pagato e previsto ma non consegnato)…etc.
Mentre rifletto amaramente su tutto questo e su cone stiano uccidendo il Tor, Tano, un simpatico sessantacinquenne di Reggio Emilia amoco di amici (arrivato primo di categoria al Cortina Trail), mi chiede se voglio ripartire con lui.
Non me lo faccio ripetere 2 volte, una lepre così non me la posso perdere: parto subito con lui verso il Col Champillon. Saliamo veloci alternandoci a fare il passo, superiamo diversi concorrenti e, in brevissimo tempo, scolliniamo. Corriamo tranquilli la prima parte della discesa, poi comincio a sentire un po' di affanno, qualcosa non va e dico a Tano di andare avanti, io rifiato un attimo. Rallento, ho perso brillantezza. Cerco di non preoccuparmi, passerà e per distrarmi (cosa che faccio spesso durante le gare o gli allenamenti lunghi) comincio a pensare al racconto che scriverò. Questo mi permette di non pensare alla fatica o alla crisi e allo stesso tempo di fissare nella memoria particolari ed emozioni che altrimenti dimenticherei. Sicuramente penso molto meglio di quanto scrivo…quasi mai riesco a trasferire sulla carta i miei pensieri come vorrei!
Pensare a quello che scriverò mi distrae anche dai ricordi del 2018 e dall’incredibile episodio di déjà vu che ebbi. Mesi prima del Tor 2018 sognai di percorrere questo tratto della gara e nonostante non fossi mai stato su questo sentiero quando ci passai realmente era esattamente come lo avevo sognato. Non era uguale solo il panorama, ma anche ogni azione, persona incontrata e situazione. Nel sogno ero terrorizzato di poter scivolare e precipitare dal sentiero (che in realtà non è così scivoloso ed esposto) e facevo tutta la discesa con un’angosciante sensazione di oppressione e inquietudine. La stessa cosa poi successe nella realtà.
Questo tratto di discesa dal Col Champillon è un luogo un po’ particolare.
È un luogo caro ai Celti che credevano ci fosse un nodo energetico e qui era venerato il Dio Penn (per loro era una piccola Stonehenge). Per i Celti tutta la Valle d’Aosta era un’area speciale e magica, tanto è vero che c’è un’area megalitica ad Aosta (nel quartiere di Saint-Martin-de-Corléans) e un Cromlech al Piccolo San Bernardo.
Esattamente in questo tratto di sentiero nel 2017 si ritirò Franco Colle dopo essersi addormentato e risvegliato 4 ore dopo assiderato e in stato confusionale.
Dopo la gara quest’anno scoprirò che anche l’amico Martin avrà avuto un episodio di déjà vu su questo sentiero.
Quest’anno a me sembra tutto diverso, non sto benissimo ma sono lucido e non ho alcun déjà vu. Non mi sembra che ci sia nulla di cui preoccuparsi e il sentiero mi sembra facile e sicuro. Proseguo corrichiando senza forzare e alle 13:56 entro a Ponteille Desot. Tano mi aspetta dentro alla malga e sta già mangiando un enorme piatto di polenta taragna. Io non voglio essere da meno e al piatto di polenta aggiungo (come da tradizione in valle) diversi pezzi di fontina e una bella birra in lattina.
Mentre mangiamo parliamo con un concorrente bergamasco del Tor des Glaciers.
Non è molto contento dell’assistenza ricevuta nei rifugi e dell’organizzazione della gara, soprattutto considerando il costo dell’iscrizione. In pratica ci consiglia caldamente di non farlo. Un po’ intristito dalle considerazioni e dal racconto sul Glaciers, saluto e ringrazio i volontari del ristoro ed esco con Tano. Partiamo di corsa (Tano all’uscita dai ristori e sempre vispo come un grillo), ma dopo qualche centinaio di metri sento che non riesco a tenere il suo ritmo e dico a Tano di andare avanti.
Io quando esco dai ristoroi faccio sempre un po’ fatica ad ingranare, ma adesso c’è qualcosa che non va: faccio fatica a respirare, qualcosa mi comprime il diaframma.
Mi guardo la pancia e scopro che si è gonfiata come un pallone e sta premendo contro i polmoni non permettendomi di respirare. Vado in panico. Sono poco lucido (forse per la mancanza di sonno accumulata) e comincio a pensare alle cose peggiori, anche alle più assurde: che sia un infarto intestinale o un’infarto vero e proprio? …no, probabilmente è un blocco intestinale o un rovesciamento dello stomaco…tutte patologie per cui ci si può lasciare le penne! Non posso rischiare la vita per una gara, tengo famiglia…mi devo fermare e ritirami. Mi siedo su una panchina fatta con un grosso tronco d’albero sul bordo della carrabile, mi stendo a pancia in su. Chiamo mia moglie, le racconto tutto.
Le dico che ho deciso di ritirami, non voglio che si preoccupi e non voglio aggravare la situazione. Lei che normalmente è super apprensiva e prudente reagisce dicendomi che non se ne parla. Se mi ritirassi me ne pentirei sicuramente, secondo lei non è nulla di grave, sto solo cercando una scusa, un alibi per ritirami perché non sto fallendo l’obbiettivo delle 130 ore. Mi dice di chiamare una nostra amica dottoressa e farsi dire da lei se dati i sintomi potrebbe essere qualcosa di grave o se posso continuare. Mando alla dottoressa le foto della mia pancia gonfia e poi la chiamo per spiegarle i sintomi. Lei mi rassicura dicendomi che non può essere nulla di veramente grave: posso continuare la gara. Certo settimana prossima dovrò fare un po’ di esami perché quello che ho avuto non è una cosa normale, ma ora posso e devo continuare. Probabilmente è stato solo un mix tra la dissenteria, la polenta e la birra che hanno creato un fenomeno di meteorismo estremo.
Tranquillizzato dalla diagnosi telefonica, nonostante il dolore alla pancia e le difficoltà respiratorie, comincio ad analizzare la situazione più razionalmente: è vero…ritirarsi sarebbe la scelta più facile, ho anche l’alibi pronto, per me e per gli altri. Poi penso alla raccolta fondi per il Comitato Maria Letizia verga che ho contribuito a promuovere e mi dico: “Con che coraggio penso di ritirami dopo che ho detto a tutti che lotterò per superare i 23 colli del Tor come fanno i ricercatori e i piccoli pazienti quando lottano ogni giorno contro la leucemia infantile e che devono fare delle offerte per sostenere la ricerca! Eh no!!! Anche sulle ginocchia ma arriverò a Courmayeur…”
Riparto prima camminado e poi corricchiando piano. Man mano che scendo lungo la carrabile riesco a liberarmi dell’aria in eccesso e contestualmente riesco a correre più liberamente. Dopo mezz’ora sto molto meglio e mi ritrovo a correre veloce (per me) a 5/5:30. Non male dopo 300km e dopo quello che ho avuto. Sono euforico, forse non tutto è perduto…le 130 ore sono ancora alla mia portata.
Corro tenendomi nella parte centrale della carrabile per rimanere sull’erba morbida tra i 2 solchi laterali dove la corsa è meno traumatica per le articolazioni.
Poco prima di arrivare a Saint Rhemy En Bosses incrocio 2 ciclisti che stanno salendo veloci sfruttando la pedalata assistita delle loro biciclette elettriche. Procedono appaiati occupando 2/3 della carreggiata.
Io sto correndo veloce e dopo 300 km non ho un buon controllo delle mie gambe, ogni frenata è un supplizio, ma sono tranquillo, tanto si sposteranno loro…
Col cazzo! Quello al centro della carreggiata mi investe in pieno e mi colpisce con il lato sinistro del manubrio. Forse a causa della velocità non cado ne io ne lui. Sono così sorpreso che non riesco nemmeno ad insultarli. In altre condizioni non se la sarebbero cavata così facilmente…ma adesso non c’è speranza di inseguirli e riprenderli.
Ricomicio a correre e intanto mi controllo il braccio sinistro che mi fa male, ma fortunatamente è solo una botta con relativo ematoma.
Anni di gare di boarder-cross con lo snowboard mi hanno insegnato ad assorbire gli urti e non riportare troppi danni negli scontri ad alta velocità.
Senza nemmeno rendermene conto arrivo a Bosses, sono le 16:39.
Mi registro e racconto l’accaduto al volontario che registra gli arrivi.
Poi vado di corsa a mangiare qualcosa di caldo, non voglio perdere tempo.
Poco dopo mi raggiunge il responsabile del ristoro e mi chiede se voglio fare una denuncia e ho qualche informazione per aiutare la forestale a cercare i 2 ciclisti. Purtroppo non posso aiutarli, i 2 ciclisti non avevano niente di particolarmente riconoscibile e ormai penso sia passato troppo tempo, possono essere ovunque, inutile perdere tempo a sporgere denuncia.
Appena terminato di parlare ci raggiunge un commissario di gara che dice al responsabile del ristoro che potrebbe nevicare e che nessuno dei concorrenti ha i ramponcini. Il responsabile del ristoro mi guarda interrogativo e mi chiede se li ho.
Io temendo il rischio di essere squaificato rispondo subito che ha Ollomont avevo chiesto e mi avevano assicurato che non erano necessari e tantomeno obbligatori.
Il responsabile del ristoro mi dice che hanno fatto bene, tanto non nevicherà e se nevicherà non attaccherà: non c’è da preoccuparsi.
Verso le 17 riparto da Bosses. Sono tranquillo, nessuno dell’organizzazione è preoccupato di una possibile nevicata.
Successivamente scoprirò che, in realtà, le previsioni del tempo locali a quell’ora davano già nevicate con accumuli per la notte.
La sosta mi ha rigenerato. Fino all’Alpe Merdeux Desot salgo spedito e con un’andatura costante, tanto che raggiungo Tano. Improvvisamente però si alza un vento freddissimo e dobbiamo ripararci dietro delle rocce per poter indossare un secondo strato caldo e il guscio. Riparto insieme a Tano ma dopo poco un nuovo attacco di dissenteria mi obbliga a fermarmi. Quando riesco a ripartire sono completamente privo di forze. Ondeggio in balia del vento e avanzo ad una velocità ridicola.
Sono demoralizzato, ma non mollo. Qualsiasi cosa succeda arriverò a Courmayeur!
Dopo un paio di ore riesco a raggiungere Tza Merdeux dove incontro il fotografo Stefano Jeantet che sta scattando delle foto in controluce al tramonto. Purtroppo io non sono un gran soggetto da fotografare: avanzo ingobbito e insicuro e ogni passo è un fatica immane. Mi superano diverse persone: escursionisti diretti al rifugio Frassati e alcuni concorrenti. Vanno tutti a doppia velocità rispetto a me…e il mio morale è letteralmente sotto i tacchi delle Hoka. Il Frassati non si vede e sembra non arrivare mai, poi finalmente arrivo al laghetto sotto al rifugio e penso che sia fatta. Mancano solo un centinaio di metri di diastanza e 20 metri di dislivello positivo ma io non ho più forze: ci metterò quasi un quarto d’ora per salire. Entro al rifugio Frassati alle 20:38.
Sono distrutto. Ai volontari che mi ricevono chiedo solo dove è il medico, senza preoccuparmi del fatto che mi potrebbe fermare non ritendomi idoneo a continuare e tagliare il pettorale obbligandomi al ritiro. Il medico è uno in gamba, sulla sessantina, abituato ad andare in montagna. Si fa spiegare la situazione, mi visita e poi emette il suo verdetto: “I parametri vitali sono abbastanza nella norma. Ora mangia, poi vai a dormire per tre ore e al risveglio ti visiterò di nuovo. Se ti sarai ripreso come penso, potrai ripartire!”
Mangio come un bufalo e dormo come un sasso tre ore (il medico ha chiesto ai volontari di farmi dormire più delle due ore normalmente previste dal regolamento) nonostante il leggendario freddo glaciale delle camerate del Frassati.
Quando mi sveglio mi sento un altro, sto da dio, la stanchezza sembra solo un ricordo e infatti il medico mi da l’ok per ripartire.
Una serie di persone: volontari, giudici di gara e altri dell’organizzazione (molte sono persone che conosco bene, amici, e quindi in buona fede) mi tranquillizzano sulle condizioni climatiche: ci sarà freddo intenso, un po’ di vento e nevischio che sicuramente, dato il freddo, non attaccherà…(ormai questa frase mi sembra una specie di mantra…”Non attacherà!”).
È incredibile pensare che ancora a quest’ora l’organizzazione (o almeno quelli presenti al Frassati) ritenesse che la neve non avrebbe attaccato!
È da poco passata la mezzanotte quando esco dal rifugio. Mi sento bene, anche se so di non essere al massimo della condizione sono sereno. L’aria è pungente e la temperatura è sicuramente sotto lo zero, ma io sono ben attrezzato e protetto dal vento e dal freddo.
Salgo con passo spedito e costante verso il Malatra e in breve supero alcuni concorrenti.
Fa veramente molto freddo, ma a me il freddo piace, temo molto di più il caldo.
Il nevischio è rado ed è composto da minuscole palline di neve ghiacciata, non da fiocchi. Non c’è vento. Il terreno è pulito: gelato e compatto ma privo di neve e ghiaccio. Le suole Vibram delle mie Hoka Mafate Speed 4 fanno ottima presa e salgo senza difficoltà. Penso con tristezza che ormai l’obbiettivo delle 130 ore è sfumato, ma a Courmayeur so che ci arriverò senza problemi, ormai è fatta…ancora una volta passerò il Malatra di notte. È destino…ma l’importante è arrivare!
E al Malatra ci arrivo proprio poco prima dell’una di notte.
Davanti a me ci sono 2 frontali che raggiungo proprio in prossimità delle corde fisse. Vedo che sono un ragazzo e una ragazza, probabilmente stanno insieme. Decido di regalargli un momento di intimità nel punto più iconico del Tor, il Col de Malatra e così mi fermo. I due mi vedono e proseguono, ma non senza difficoltà sulle corde fisse.
Si vede che non sono abituati ai sentieri di alta montagna.
La guida alpina che presidia il colle non si vede, deve essere rintanata al calduccio nel piccolo bivacco elitrasportato.
Attendo cinque minuti di orologio, durante i quali i due si scattano innumerevoli foto, poi comincio a salire sulle corde fisse. Il ragazzo mi vede e mi urla: “Puoi aspettare un attimo che dobbiamo fare una foto?”
La rabbia mi esplode immediata e penso tra me e me: “Dobbiamo fare una foto??? Ho aspettatoper cortesia cinque minuti fermo al freddo e mi chiedi di aspettare ancora???” La mia risposta è pacata e composta da una parola di 2 lettere: ”No!”.
Salgo e mi piazzo tra loro due proprio di fronte alla targa con il nome del colle.
I due indispettiti si spostano e lui comincia a staccare pezzi della bandella Tor X che delimita l’area sicura sul colle. Lo guardo allibito e disgustato…peggio dei turisti che rubano la sabbia in Sardegna come ricordo! Ormai i poser sono arrivati anche al Tor!!!
Mi faccio un velocissimo selphy per la raccolta fondi e, per evitare di insultarli, mi lancio di corsa lungo la discesa. Il terreno è pulito, privo di neve o ghiaccio, e la visibilità ottima. Seguo le bandierine gialle come se stessi facendo uno slalom gigante.
La sensazione di libertà della corsa in discesa è inebrante e appagante, sono felice…
i due poser non esistono più, sono solo io e il vallone del Malatrà!
Passa un quarto d’ora e si alza il vento e con il vento arivano i fiocchi di neve.
Non sono più microscopiche palline ghiacciate, ora sono panciuti fiocchi neve che si posano sul terreno senza dissolversi.
Passa un altro quarto d’ora e il sentiero è coperto di neve. Tutto intorno a me è coperto da una coltre bianca di 10 centimetri. I fiocchi di neve riflettono la luce della frontale e la visibilità diminuisce drasticamente. Seguire le balisse diventa un’impresa. Il vento è molto forte, probabilmente 60/70kmh. A causa del wind-chill la temperatura percepita è molti gradi sotto lo zero. Unica fortuna è che il vento soffia alle mie spalle.
Nonostante la tormenta la situazione sembra sotto controllo, ma dopo pochi minuti la maledizione di Montezuma decide di ritornare a farmi visita. Questa volta la dissenteria non si limita a togliermi solo le forze ma, forse a causa del freddo, mi causa dei fortissimi crampi addominali. Sono costretto a fermarmi più volte, cercando di ripararmi dal dietro i pietroni più grossi dal vento e dagli sguardi dei due poser che nel frattempo mi hanno raggiunto (per dare un’idea dei due personaggi, lei è coperta con uno di quegli anti-vento trasparenti a poncho che si usano durante i temporali estivi…sigh!).
Ogni volta che mi fermo per fare ciò che devo, spogliarmi è un’impresa e un’agonia allo stesso tempo: da un lato devo togliere gli innumerevoli strati di vestiario (coprirsi a cipolla funziona fino a quando rimani vestito) e dall’altro mi espone al freddo e mi gela le ossa fino al midollo.
Quando riesco finalmente ad arrivare al ristoro e bivacco di emergenza del colle Pas Entre Deux Sauts è una vera liberazione. Ho un solo pensiero in testa: entrare a dentro il piccolo bivacco di plexiglass e riscaldarmi un po’.
Purtroppo a causa delle innumerevoli soste sono stato preceduto dai due poser che si sono appropriati del bivacco. Si sono chiusi dentro e non fanno entrare nessuno perché lei si sta cambiando. Il cambio d’abito della signorina dura almeno una ventina di minuti…probabilmente si è fatta anche la piega ai capelli! Fuori io e altri due concorrenti stiamo congelando sotto il tendone teso tra il bivacco mobile in plexiglass e un piccolo modulo prefabbricato (come quello dei cantieri edili) usato dalle guide per riposare.
Per fortuna un volontario ha pietà di noi e accende un fornello a gas (che servirebbe solo per cucinare) per tentare di scaldarci un po’.
La situazione al ristoro è abbastanza critica: la neve si sta accumulando abbondante sul telo del tendone e i volontari a intervalli di dieci minuti sono costretti a liberarlo dalla neve per evitare che collassi.
I volontari sono molto arrabbiati con i due poser chiusi all’interno del bivacco e gli chiedono più volte ad alta voce di aprire la porta ed uscire. I due se ne fregano e fanno finta di non sentire, anche perché più che cambiarsi ora stanno proprio dormendo.
L’atmosfera sta per degenerare ma, all’improvviso, si apre la porta del modulo prefabbricato. Due guide del soccorso alpino escono di corsa e urlano:
“Tra cinque minuti non vogliamo più nessuno qui. Dobbiamo partire per cercare dei dispersi e questo è un bivacco di emergenza, non un ristoro e tantomeno un albergo. Via tutti subito!!!” Poi si rivolgono ai volontari e con tono deciso, ma senza urlare, gli impartiscono le loro indicazioni: “Andiamo a cercare 8 dispersi del Glaciers: 6 sono scesi verso il Bonatti e altri 2 dal Malatrà verso la Svizzera…quando torneremo non vogliamo trovare nessun concorrente, il bivacco vuoto e pronto per ricevere i dispersi ed eventuali feriti!” I due poser svegliati dalle urla escono dal bivacco con aria serafica.
Io e gli altri 2 concorrenti che si erano fermati a riscaldarsi con me intorno al fuoco li guardiamo con disprezzo e ripartiamo immediatamente.
Rinuncio al selfie di rito per la raccolta fondi del Comitato Maria letizia Verga, il vento è troppo forte e il freddo troppo intenso…l’ultimo colle rimarrà senza foto e prova del mio passaggio!
Sto bene ma ho freddo, un freddo profondo che mi gela le ossa.
Succede sempre quando mi fermo ad un ristoro a riposare un po’ e a bere un po’ di tè caldo con i biscotti. Quindi parto correndo a ritmo abbastanza sostenuto per riscaldarmi.
La neve copre la traccia del sentiero ma non si scivola, le suole Vibram garantiscono un ottimo grip. La visibilità non è buona e i fiocchi di neve riflettono la luce della frontale rendendo quasi impossibile vedere le balisse. Fortunatamente conosco questa parte del percorso come le mie tasche…e posso proseguire praticamente ad occhi chiusi.
In breve distanzio i 2 concorrenti partiti con me e quando arrivo all’alpeggio di Arminaz non vedo più la luce delle loro frontali dietro di me. Correre da solo è un rischio, ma fermarsi ad aspettare altri concorrenti e raffreddarsi è ancora più pericoloso.
Non ho il tracker GPS dell’organizzazione ma ho il mio fido Garmin InReach che mi dà sicurezza: in caso di bisogno basta che schiacci il tasto di emergenza per alcuni secondi per inviare un segnale di soccorso con la rete satellitare, anche dove non c’è copertura cellulare.
La tormenta non accenna a placarsi ma scendendo verso il torrente d’Arminaz il vento sembra calare leggermente. Arrivato al ponte di metallo che supera il torrente sono costretto ad un nuova fermata, purtroppo la dissenteria mi colpisce ancora. Mi accuccio sotto la prima arcata del ponte per cercare un po’ di riparo dal vento e faccio quello che devo. Mentre evacuo arrivano i 2 concorrenti ripartiti con me dal bivacco. Ho la frontale spenta e mi passano sopra senza neanche vedermi. Li lascio allontanarsi e poi mi rivesto con calma e provo a ripartire. Questa ultima scarica mi ha lasciato veramente senza forze: mi gira la testa, non sto in piedi e ho la mente insonnolita e annebbiata.
So che da qui non manca molto al rifugio Bertone, ma sono veramente prostrato. Raggiungo con grande fatica e lentamente Arminaz Desot, poi salgo verso le baite di Lechere e infine arrivo al bivio sopra l’alpeggio di Leuchey. Qui la tormenta si fa più forte e il vento aumenta di intensità diventando quasi frontale. Comincio a barcollare e la mia mente comincia a intorpidirsi e spegnersi. Il sentiero a mezza costa è completamente aperto, provo di ripari. Sono completamente in balia della tempesta.
Per un attimo penso di fermarmi, avvolgermi nei teli termici e dormire o riposare un po’.
Sono stanco, stanchissimo, mi si chiudono gli occhi, voglio solo dormire…forse non farà più tanto freddo! Poi torno in me, ho un attimo di lucidità e mi ritorna in mente quello che è succeso a Matteo Grassi al Tor Des Geants 2016: rischiò di morire di ipotermia proprio in questo punto. Solo il provvidenziale intervento di alcuni malgari che l’avevano trovato semi-svenuto sul sentiero e l’avevano portato al caldo della loro malga l’aveva salvato da morte sicura.
Spalanco gli occhi e comincio a cantare a squarciagola le canzonette popolari sconce che mi ha insegnato mio padre quando ero bambino. È l’unico modo per rimanere sveglio e vigile. Non ho forze ma comincio a correre come un pazzo controvento. Ho paura di morire, ma dentro di me, nel mio inconscio so che oggi non morirò. Devo solo soffrire, tenere duro, restare sveglio e continuare a correre. Non si vede niente, la frontale illumina solo la neve che scende a 30 centimetri dai miei occhi, ma conosco bene la balconata della Val Ferret…devo correre, anche con gli occhi chiusi, non fermarmi mai. Ho paura e la paura mi da la forza di continuare e mi tiene sveglio. Ogni tanto incespico, ma non cado. Barcollo ma non mollo…voglio arrivare al rifugio Bertone, per raggiungere la salvezza, ma, soprattutto per far smettere questa sofferenza.
Continuare a correre e tenere gli occhi aperti è dolore puro. Ho sonno, un sonno che fa male…poi ad un tratto come fosse un miraggio nel deserto vedo delle luci: sono le 6:04, è il rifugio Bertone, o meglio, il tendone che fa da ristoro al Mont De La Saxe: sono salvo…anche questa volta ho portato a casa la pellaccia!
So che può sembrare esagerato, ma ho la consapevolezza di aver rischiato la vita e se sono vivo è solo merito della mia tenacia.
Sotto il tendone del ristoro mezzo sventrato dalla neve regna il caos: il vento ha portato via quasi tutto e rovesciato i tavoli con il cibo e le bevande. Sembra di essere in guerra o che sia passato un uragano. Come nel ristoro precedente c’è un bivacco in plexiglass elitrasportato. Voglio entrarci e dico alle 2 volontarie che presidiano il ristoro che devo riposare. Loro mi dicono che non si può entrare nel bivacco. Non le ascolto nemmeno, ne sposto una di peso, apro la porta del bivacco e mi ci butto dentro, crollando sulla piccola panca metallica all’interno. Una volontaria reagisce, sta per dire qualcosa, ma l’azzittisco: “Sto male…sto congelando!” Mi guarda in faccia, sono bianco come un cadavere (me lo confermerà lei qualche minuto dopo) e si spaventa un po’…a questo punto capisce la situazione e si scusa. Hanno ricevuto ordine dalle guide di non far entrare nessuno nei bivacchi di emergenza…ma in effetti questa è un’emergenza!
Mi portano subito del tè caldo e un po’ di biscotti e crostatine, mi coprono con delle coperte e mi coccolano come delle mamme. Mi sento come un naufrago appena salvato dal mare in tempesta.
Nel giro di una ventina di minuti, al caldo del bivacco e con le cure delle 2 volontarie ho ripreso il mio colore naturale e mi sono rimesso in forze. Ringrazio le volontarie: devo ripartire subito, finchè sono in forze. Voglio scendere a Courmayeur e finire questo Tor il prima possibile. Lascio il tendone proprio quando comincia timidamente ad albeggiare. Passo il rifugio Bertone e dopo pochi metri la neve comincia a scomparire dal sentiero. Corro in discesa saltellando da una pietra all’altra, cercando di evitare le radici sporgenti. La mia corsa non è fluida, sono rigido e inpacciato, ma corro verso il traguardo! Visualizzo il gonfiabile dell’arrivo nella mia mente e intanto corro nelle strade quasi deserte della periferia di Courmayeur. Non c’è gioia in me, solo sollievo.
Le poche persone che incontro mi applaudono, ma io non sono felice, sono triste ma ricambio con un sorriso il loro incitamento per non deluderli.
Questo Tor, purtroppo, non mi piace più…mi fa proprio cagare!
Metaforicamente e non solo…
Senza quasi accorgermene arrivo in via Roma. Sto correndo senza convinzione come un automa. Voglio solo che questo Tor finisca…nel 2018 in questo stesso tratto di strada desideravo che il Tor non finisse mai e non volevo arrivare al traguardo.
Arrivo nel corridoio transennato finale con un velo di tristezza e malinconia sugli occhi.
Non ci sarà nessuno ad aspettarmi: mio padre è morto, mia moglie sta lavorando, mia figlia grande è in università, mia figlia poco piccola è a Miami a studiare, mia madre non sta bene e non può spostarsi da casa sua in Toscana!!!
Ma come nei migliori film la vita non smette mai di sorprenderci e c’è sempre un colpo di sorpresa finale: nel grigiore di via Roma compare il mio amico Marco, il Poletti, con il suo piumino verde e le stampelle (si è rotto un tallone una settimana fa) che mi urla: “Vai Carlissimo, sei arrivato!!!”…poi mi giro e vedo Ettore Pettinaroli che mi sorride.
Non sono felice per questo Tor, ma sorrido per loro che sono qua a ricevermi alle 7:38 di un uggioso sabato mattina di settembre….questo sì che mi rende felice!
Nonostante tutto taglio il traguardo sorridendo (anche se è un sorriso tirato).
Abbraccio prima Marco e poi Ettore che mi stringe forte, come un padre abbraccia il figlio che torna dalla guerra, e mi sussurra all’orecchio: “Sono felice che tu sia arrivato al traguardo sano e salvo!”
Detto da lui che fa parte dell’organizzazione mi fa capire che qualcosina, la scorsa notte, scendendo dal Malatrà l’ho rischiata!
EPILOGO:
Sono passati 2 mesi dalla fine del Tor 2018. Sto bene e ho appena finito di scrivere il racconto dell’ultima tappa. Ci ho messo tanto a scrivere di quest’ultima tappa, forse troppo. Ho avuto un sacco di impegni lavorativi, alla sera ero stanco e i week end ero impegnato, ma queste sono solo scuse, anche se vere. Ci ho messo tanto a scriverla perché volevo essere sicuro di aver metabolizzato e digerito per bene il mio ultimo Tor.
Sono sicuro che questo è stato e sarà il mio ultimo Tor.
Tornerò su quei sentieri perché li amo come non amo nessun altro sentiero al mondo, ma non ci tornerò in gara: rovinerei solamente il bellissimo ricordo di questi 2 Tor.
Questo Tor 2022 come ho già detto mi ha fatto “cagare” in molti sensi, non è più il Tor che conoscevo…quel Tor, il mio Tor, non esiste più!
Non è più il Tor, ma io lo amo e continuo ad amarlo. È stato un sogno. È stata la più bella avventura della mia vita, soprattutto la prima volta, ma ora è finita. Ho nuovi progetti in programma, altrettanto stimolanti e su altri sentieri in Italia e nel mondo. Sicuramente però, so che tutto quello che farò, lo farò abbinandoci dei progetti di charity, perché solo così le nostre fatiche di ultra-trailer acquistano un vero significato!
Grazie di avermi letto e spero in futuro di offrirvi nuovi racconti di altre avventure altrettanto stimolanti!
Come dicono i giovani: stay tuned.
PS: ho fatto tutti gli esami di questo mondo dopo il Tor e per fortuna non ho niente.
La dissenteria che mi ha tormentato al Tor è stata probabilmente il frutto di una gastroenterite avuta ad agosto e non curata adeguatamente. È bastata una settimana di antibiotico intestinale per rimettermi in sesto.
Sottotitolo: “Un po’ di dissenteria non ha mai ucciso nessuno…”
Sono alla base vita di Ollomont.
So che per finire il Tor des Geants ho bisogno di un obbiettivo, piccolo o grande che sia. Può essere nobile o futile, ma deve esistere, almeno nella mia testa, deve esserci, ne ho bisogno. Quando sono sfinito, a pezzi e andare avanti è un’impresa, quando devo trovare la forza di soffrire e fare quella serie di piccoli passi che mi porteranno al traguardo, ho bisogno di una motivazione.
Non me la possono dare gli altri, devo trovarla io: dentro di me!
Quest'anno il mio obbiettivo (il futile stare sotto le 120 ore) é diventato irraggiungibile.
Non per colpa mia...avevo programmato e fatto tutto per raggiungerlo (le 4 A: Allenatore, Alimentazione, Attrezzatura, Allenamenti): ma ci sono cose che non dipendono da noi, la fortuna è per metà arbitra del nostro destino, ma ci colpisce là dove non abbiamo costruito argini o ripari (cit. Macchavelli). Questo vale nella vita come al Tor. Per questo il Tor mi piace così tanto e me ne innamorai la prima volta: è una metafora della vita, ma in miniatura: tutta una vita in 5 giorni!
Io avevo costruito argini e ripari (le 4 A) ma la fortuna non è stata dalla mia parte.
Non importa, se un obbiettivo sfuma, è fondamentale sostituirlo subito con un altro, diversamente potrei mollare, ritirarmi, non troverei la forza di arrivare al tragurado.
Per fortuna il nuovo obbiettivo è chiaro nella mia mente, arrivare almeno entro le 130 ore, così potrò fare il Tor des Glaciers (in realtà non mi interessa fare il Glaciers ma mi serve crederlo per dare valore al nuovo obbiettivo).
Per raggiungere l'obbiettivo non potrò più sbagliare e perdere tempo: dovrò fermarmi a Ollomont il meno possibile. Mi do 45 minuti. Pochi per ricaricarsi dopo la travagliata sesta tappa ma basteranno: devo solo mangiare, cambiarmi, ricaricare le borracce e rifare lo zaino allegerendolo al massimo.
Ollomont è la base vita più piccola e logisticamente peggiore del Tor, ma non c'è problema, mi metto su una brandina libera. Di spazio alla fine ce né perchè in gara di concorrenti ne sono rimasti solo 2/3 e la pamcia della gara è più indietro!
Esclusi alcuni i ristori è sicuramente la base vita con il cibo migliore: abbondante e vario. Riesco a mangiare tanto e bene. La dissenteria sembra un lontano ricordo,
mi sento bene e ho ricaricato le energie. Ora si tratta solo di cambiarsi e alleggerire lo zaino. Ma prima, do un'occhiata veloce ai siti internet delle previsioni meteo più generalisti (quelli che guarda anche mia madre): 3B-meteo e Ilmeteo.it.
Sembra che qualcosa stia cambiando: stanotte e domattina potrebbe piovere e nevicare in quota (con accumuli nevosi). Per scrupolo chiedo al responsabile della base vita informazioni più precise (e attendibili). Soprattutto voglio capire se dobbiamo prendere i ramponcini e il kit invernale. La risposta è perentoria: “Assolutamente no! È previsto freddo e al massimo un po' di nevischio, ma niente accumuli nevosi…, tranquillo!"
Mi fido (perché non dovrei? È un professionista e si affida a previsioni professionali) e non prendo i ramponcini...lo zaino deve essere il più leggero possibile.
Le gambe stanno bene e voglio correre il più possibile per raggiungere l’obbiettivo 130h.
Sono convinto di poterlo raggiungere e per un attimo (nella foga agonistica sto dimenticando anni di esperienza in montagna) penso di lasciare anche la frontale di riserva, il piumino e i pantaloni pesanti nella borsa gialla. Per fortuna una vocina mi dice: “Che cazzo stai facendo!?!” e riacquistato un po’ di buon senso lascio nella borsa gialla solo le borracce di riserva (ne tengo solo 2 invece delle solite 4), le riserve alimentari extra regolamento, il mio pesantissimo kit di pronto soccorso e i vestiti di ricambio.
Così lo zaino è molto più leggero (un paio di chili), ma allo stesso tempo non rischio di trovarmi impreparato in caso di maltempo o imprevisti.
Sono le 9:20 quando riparto combattivo e determinato come mai.
Sono rimasto fermo solo 53 minuti, 8 minuti più di quanto mi ero prefissato.
Affronto la salita verso il rifugio Champillon con passo deciso, lo spirito agonistico si è risvegliato dentro di me e mi sento forte e agguerrito.
A metà della salita mi distraggo osservando dei pastori che stanno addestrando due cani a prendersi cura delle mucche. È uno spettacolo vedere l'abilità e l'intelligenza con cui imparano a radunare la mandria.
In vista del rifugio vengo affiancato da un fotografo e un video-operatore su un suv che stanno facendo un reportage su dei concorrenti cinesi. Invece di riprendere i cinesi (che arrancano stravolti) cominciano a fotografare e riprendere me che sto salendo a buon ritmo. La cosa gratifica il mio ego e vado contro il mio unico principio al Tor: non correre mai in salita. Però sto bene e vorrei spaccare il mondo, quindi comicio a correre fino al rifugio Champillon. Da Ollomont ci ho messo meno di 2 ore per salire.
Scherzo e rido con la ragazza del rifugio Champillon che si occupa del ristoro e seguendo il suo consiglio...(errore madornale) mangio ben due piatti della loro famosa zuppa di verdure. Non è una grande idea quando uno ha appena avuto la dissenteria solo poche ore prima... ma, al momento, non mi accorgo di niente, non ci penso e ne apprezzo solo la bontà. Il ristoro non è dentro il rifugio come gli altri anni ma in un locale a parte, un pezzo di stalla ristrutturato. Chiedo all ragazza se è una scelta dovuta al Covid, ma mi spiega che hanno messo il ristoro in un’area separata perché vogliono che sia chiaro che è una cosa a parte, non vogliono che sembri una loro gestione. L'organizzazione ha fornito quantità e varietà di cibo e bevande veramente minime.
Loro hanno fatto la zuppa a loro spese solo perché è sempre stata una tradizione del rifugio. Le dico che non capisco come sia possibile visti i soldi che incassano con le iscrizioni (900 euro a cranio!). Lei mi racconta (storia che in Valle gira già da un po’) che il Tor X è stato venduto ai cinesi e che quindi essendo l'ultimo anno in cui è gestito dalla VDA Trailers, questi ultimi vogliono guadagnare il più possibile.
Non so se questa storia sia vera, ma gli indizi sono tanti. È innegabile che il Tor non è più quello di una volta (a parte i volontari che sono sempre eccezionali) e non mi riferisco ai primi Tor ma faccio il paragone con quello del 2018: cibo scarso e poco vario, inefficienze organizzative, errori nel comunicare alcuni chilometraggi durante il briefing, mancanza del tracker GPS (pagato e previsto ma non consegnato)…etc.
Mentre rifletto amaramente su tutto questo e su cone stiano uccidendo il Tor, Tano, un simpatico sessantacinquenne di Reggio Emilia amoco di amici (arrivato primo di categoria al Cortina Trail), mi chiede se voglio ripartire con lui.
Non me lo faccio ripetere 2 volte, una lepre così non me la posso perdere: parto subito con lui verso il Col Champillon. Saliamo veloci alternandoci a fare il passo, superiamo diversi concorrenti e, in brevissimo tempo, scolliniamo. Corriamo tranquilli la prima parte della discesa, poi comincio a sentire un po' di affanno, qualcosa non va e dico a Tano di andare avanti, io rifiato un attimo. Rallento, ho perso brillantezza. Cerco di non preoccuparmi, passerà e per distrarmi (cosa che faccio spesso durante le gare o gli allenamenti lunghi) comincio a pensare al racconto che scriverò. Questo mi permette di non pensare alla fatica o alla crisi e allo stesso tempo di fissare nella memoria particolari ed emozioni che altrimenti dimenticherei. Sicuramente penso molto meglio di quanto scrivo…quasi mai riesco a trasferire sulla carta i miei pensieri come vorrei!
Pensare a quello che scriverò mi distrae anche dai ricordi del 2018 e dall’incredibile episodio di déjà vu che ebbi. Mesi prima del Tor 2018 sognai di percorrere questo tratto della gara e nonostante non fossi mai stato su questo sentiero quando ci passai realmente era esattamente come lo avevo sognato. Non era uguale solo il panorama, ma anche ogni azione, persona incontrata e situazione. Nel sogno ero terrorizzato di poter scivolare e precipitare dal sentiero (che in realtà non è così scivoloso ed esposto) e facevo tutta la discesa con un’angosciante sensazione di oppressione e inquietudine. La stessa cosa poi successe nella realtà.
Questo tratto di discesa dal Col Champillon è un luogo un po’ particolare.
È un luogo caro ai Celti che credevano ci fosse un nodo energetico e qui era venerato il Dio Penn (per loro era una piccola Stonehenge). Per i Celti tutta la Valle d’Aosta era un’area speciale e magica, tanto è vero che c’è un’area megalitica ad Aosta (nel quartiere di Saint-Martin-de-Corléans) e un Cromlech al Piccolo San Bernardo.
Esattamente in questo tratto di sentiero nel 2017 si ritirò Franco Colle dopo essersi addormentato e risvegliato 4 ore dopo assiderato e in stato confusionale.
Dopo la gara quest’anno scoprirò che anche l’amico Martin avrà avuto un episodio di déjà vu su questo sentiero.
Quest’anno a me sembra tutto diverso, non sto benissimo ma sono lucido e non ho alcun déjà vu. Non mi sembra che ci sia nulla di cui preoccuparsi e il sentiero mi sembra facile e sicuro. Proseguo corrichiando senza forzare e alle 13:56 entro a Ponteille Desot. Tano mi aspetta dentro alla malga e sta già mangiando un enorme piatto di polenta taragna. Io non voglio essere da meno e al piatto di polenta aggiungo (come da tradizione in valle) diversi pezzi di fontina e una bella birra in lattina.
Mentre mangiamo parliamo con un concorrente bergamasco del Tor des Glaciers.
Non è molto contento dell’assistenza ricevuta nei rifugi e dell’organizzazione della gara, soprattutto considerando il costo dell’iscrizione. In pratica ci consiglia caldamente di non farlo. Un po’ intristito dalle considerazioni e dal racconto sul Glaciers, saluto e ringrazio i volontari del ristoro ed esco con Tano. Partiamo di corsa (Tano all’uscita dai ristori e sempre vispo come un grillo), ma dopo qualche centinaio di metri sento che non riesco a tenere il suo ritmo e dico a Tano di andare avanti.
Io quando esco dai ristoroi faccio sempre un po’ fatica ad ingranare, ma adesso c’è qualcosa che non va: faccio fatica a respirare, qualcosa mi comprime il diaframma.
Mi guardo la pancia e scopro che si è gonfiata come un pallone e sta premendo contro i polmoni non permettendomi di respirare. Vado in panico. Sono poco lucido (forse per la mancanza di sonno accumulata) e comincio a pensare alle cose peggiori, anche alle più assurde: che sia un infarto intestinale o un’infarto vero e proprio? …no, probabilmente è un blocco intestinale o un rovesciamento dello stomaco…tutte patologie per cui ci si può lasciare le penne! Non posso rischiare la vita per una gara, tengo famiglia…mi devo fermare e ritirami. Mi siedo su una panchina fatta con un grosso tronco d’albero sul bordo della carrabile, mi stendo a pancia in su. Chiamo mia moglie, le racconto tutto.
Le dico che ho deciso di ritirami, non voglio che si preoccupi e non voglio aggravare la situazione. Lei che normalmente è super apprensiva e prudente reagisce dicendomi che non se ne parla. Se mi ritirassi me ne pentirei sicuramente, secondo lei non è nulla di grave, sto solo cercando una scusa, un alibi per ritirami perché non sto fallendo l’obbiettivo delle 130 ore. Mi dice di chiamare una nostra amica dottoressa e farsi dire da lei se dati i sintomi potrebbe essere qualcosa di grave o se posso continuare. Mando alla dottoressa le foto della mia pancia gonfia e poi la chiamo per spiegarle i sintomi. Lei mi rassicura dicendomi che non può essere nulla di veramente grave: posso continuare la gara. Certo settimana prossima dovrò fare un po’ di esami perché quello che ho avuto non è una cosa normale, ma ora posso e devo continuare. Probabilmente è stato solo un mix tra la dissenteria, la polenta e la birra che hanno creato un fenomeno di meteorismo estremo.
Tranquillizzato dalla diagnosi telefonica, nonostante il dolore alla pancia e le difficoltà respiratorie, comincio ad analizzare la situazione più razionalmente: è vero…ritirarsi sarebbe la scelta più facile, ho anche l’alibi pronto, per me e per gli altri. Poi penso alla raccolta fondi per il Comitato Maria Letizia verga che ho contribuito a promuovere e mi dico: “Con che coraggio penso di ritirami dopo che ho detto a tutti che lotterò per superare i 23 colli del Tor come fanno i ricercatori e i piccoli pazienti quando lottano ogni giorno contro la leucemia infantile e che devono fare delle offerte per sostenere la ricerca! Eh no!!! Anche sulle ginocchia ma arriverò a Courmayeur…”
Riparto prima camminado e poi corricchiando piano. Man mano che scendo lungo la carrabile riesco a liberarmi dell’aria in eccesso e contestualmente riesco a correre più liberamente. Dopo mezz’ora sto molto meglio e mi ritrovo a correre veloce (per me) a 5/5:30. Non male dopo 300km e dopo quello che ho avuto. Sono euforico, forse non tutto è perduto…le 130 ore sono ancora alla mia portata.
Corro tenendomi nella parte centrale della carrabile per rimanere sull’erba morbida tra i 2 solchi laterali dove la corsa è meno traumatica per le articolazioni.
Poco prima di arrivare a Saint Rhemy En Bosses incrocio 2 ciclisti che stanno salendo veloci sfruttando la pedalata assistita delle loro biciclette elettriche. Procedono appaiati occupando 2/3 della carreggiata.
Io sto correndo veloce e dopo 300 km non ho un buon controllo delle mie gambe, ogni frenata è un supplizio, ma sono tranquillo, tanto si sposteranno loro…
Col cazzo! Quello al centro della carreggiata mi investe in pieno e mi colpisce con il lato sinistro del manubrio. Forse a causa della velocità non cado ne io ne lui. Sono così sorpreso che non riesco nemmeno ad insultarli. In altre condizioni non se la sarebbero cavata così facilmente…ma adesso non c’è speranza di inseguirli e riprenderli.
Ricomicio a correre e intanto mi controllo il braccio sinistro che mi fa male, ma fortunatamente è solo una botta con relativo ematoma.
Anni di gare di boarder-cross con lo snowboard mi hanno insegnato ad assorbire gli urti e non riportare troppi danni negli scontri ad alta velocità.
Senza nemmeno rendermene conto arrivo a Bosses, sono le 16:39.
Mi registro e racconto l’accaduto al volontario che registra gli arrivi.
Poi vado di corsa a mangiare qualcosa di caldo, non voglio perdere tempo.
Poco dopo mi raggiunge il responsabile del ristoro e mi chiede se voglio fare una denuncia e ho qualche informazione per aiutare la forestale a cercare i 2 ciclisti. Purtroppo non posso aiutarli, i 2 ciclisti non avevano niente di particolarmente riconoscibile e ormai penso sia passato troppo tempo, possono essere ovunque, inutile perdere tempo a sporgere denuncia.
Appena terminato di parlare ci raggiunge un commissario di gara che dice al responsabile del ristoro che potrebbe nevicare e che nessuno dei concorrenti ha i ramponcini. Il responsabile del ristoro mi guarda interrogativo e mi chiede se li ho.
Io temendo il rischio di essere squaificato rispondo subito che ha Ollomont avevo chiesto e mi avevano assicurato che non erano necessari e tantomeno obbligatori.
Il responsabile del ristoro mi dice che hanno fatto bene, tanto non nevicherà e se nevicherà non attaccherà: non c’è da preoccuparsi.
Verso le 17 riparto da Bosses. Sono tranquillo, nessuno dell’organizzazione è preoccupato di una possibile nevicata.
Successivamente scoprirò che, in realtà, le previsioni del tempo locali a quell’ora davano già nevicate con accumuli per la notte.
La sosta mi ha rigenerato. Fino all’Alpe Merdeux Desot salgo spedito e con un’andatura costante, tanto che raggiungo Tano. Improvvisamente però si alza un vento freddissimo e dobbiamo ripararci dietro delle rocce per poter indossare un secondo strato caldo e il guscio. Riparto insieme a Tano ma dopo poco un nuovo attacco di dissenteria mi obbliga a fermarmi. Quando riesco a ripartire sono completamente privo di forze. Ondeggio in balia del vento e avanzo ad una velocità ridicola.
Sono demoralizzato, ma non mollo. Qualsiasi cosa succeda arriverò a Courmayeur!
Dopo un paio di ore riesco a raggiungere Tza Merdeux dove incontro il fotografo Stefano Jeantet che sta scattando delle foto in controluce al tramonto. Purtroppo io non sono un gran soggetto da fotografare: avanzo ingobbito e insicuro e ogni passo è un fatica immane. Mi superano diverse persone: escursionisti diretti al rifugio Frassati e alcuni concorrenti. Vanno tutti a doppia velocità rispetto a me…e il mio morale è letteralmente sotto i tacchi delle Hoka. Il Frassati non si vede e sembra non arrivare mai, poi finalmente arrivo al laghetto sotto al rifugio e penso che sia fatta. Mancano solo un centinaio di metri di diastanza e 20 metri di dislivello positivo ma io non ho più forze: ci metterò quasi un quarto d’ora per salire. Entro al rifugio Frassati alle 20:38.
Sono distrutto. Ai volontari che mi ricevono chiedo solo dove è il medico, senza preoccuparmi del fatto che mi potrebbe fermare non ritendomi idoneo a continuare e tagliare il pettorale obbligandomi al ritiro. Il medico è uno in gamba, sulla sessantina, abituato ad andare in montagna. Si fa spiegare la situazione, mi visita e poi emette il suo verdetto: “I parametri vitali sono abbastanza nella norma. Ora mangia, poi vai a dormire per tre ore e al risveglio ti visiterò di nuovo. Se ti sarai ripreso come penso, potrai ripartire!”
Mangio come un bufalo e dormo come un sasso tre ore (il medico ha chiesto ai volontari di farmi dormire più delle due ore normalmente previste dal regolamento) nonostante il leggendario freddo glaciale delle camerate del Frassati.
Quando mi sveglio mi sento un altro, sto da dio, la stanchezza sembra solo un ricordo e infatti il medico mi da l’ok per ripartire.
Una serie di persone: volontari, giudici di gara e altri dell’organizzazione (molte sono persone che conosco bene, amici, e quindi in buona fede) mi tranquillizzano sulle condizioni climatiche: ci sarà freddo intenso, un po’ di vento e nevischio che sicuramente, dato il freddo, non attaccherà…(ormai questa frase mi sembra una specie di mantra…”Non attacherà!”).
È incredibile pensare che ancora a quest’ora l’organizzazione (o almeno quelli presenti al Frassati) ritenesse che la neve non avrebbe attaccato!
È da poco passata la mezzanotte quando esco dal rifugio. Mi sento bene, anche se so di non essere al massimo della condizione sono sereno. L’aria è pungente e la temperatura è sicuramente sotto lo zero, ma io sono ben attrezzato e protetto dal vento e dal freddo.
Salgo con passo spedito e costante verso il Malatra e in breve supero alcuni concorrenti.
Fa veramente molto freddo, ma a me il freddo piace, temo molto di più il caldo.
Il nevischio è rado ed è composto da minuscole palline di neve ghiacciata, non da fiocchi. Non c’è vento. Il terreno è pulito: gelato e compatto ma privo di neve e ghiaccio. Le suole Vibram delle mie Hoka Mafate Speed 4 fanno ottima presa e salgo senza difficoltà. Penso con tristezza che ormai l’obbiettivo delle 130 ore è sfumato, ma a Courmayeur so che ci arriverò senza problemi, ormai è fatta…ancora una volta passerò il Malatra di notte. È destino…ma l’importante è arrivare!
E al Malatra ci arrivo proprio poco prima dell’una di notte.
Davanti a me ci sono 2 frontali che raggiungo proprio in prossimità delle corde fisse. Vedo che sono un ragazzo e una ragazza, probabilmente stanno insieme. Decido di regalargli un momento di intimità nel punto più iconico del Tor, il Col de Malatra e così mi fermo. I due mi vedono e proseguono, ma non senza difficoltà sulle corde fisse.
Si vede che non sono abituati ai sentieri di alta montagna.
La guida alpina che presidia il colle non si vede, deve essere rintanata al calduccio nel piccolo bivacco elitrasportato.
Attendo cinque minuti di orologio, durante i quali i due si scattano innumerevoli foto, poi comincio a salire sulle corde fisse. Il ragazzo mi vede e mi urla: “Puoi aspettare un attimo che dobbiamo fare una foto?”
La rabbia mi esplode immediata e penso tra me e me: “Dobbiamo fare una foto??? Ho aspettatoper cortesia cinque minuti fermo al freddo e mi chiedi di aspettare ancora???” La mia risposta è pacata e composta da una parola di 2 lettere: ”No!”.
Salgo e mi piazzo tra loro due proprio di fronte alla targa con il nome del colle.
I due indispettiti si spostano e lui comincia a staccare pezzi della bandella Tor X che delimita l’area sicura sul colle. Lo guardo allibito e disgustato…peggio dei turisti che rubano la sabbia in Sardegna come ricordo! Ormai i poser sono arrivati anche al Tor!!!
Mi faccio un velocissimo selphy per la raccolta fondi e, per evitare di insultarli, mi lancio di corsa lungo la discesa. Il terreno è pulito, privo di neve o ghiaccio, e la visibilità ottima. Seguo le bandierine gialle come se stessi facendo uno slalom gigante.
La sensazione di libertà della corsa in discesa è inebrante e appagante, sono felice…
i due poser non esistono più, sono solo io e il vallone del Malatrà!
Passa un quarto d’ora e si alza il vento e con il vento arivano i fiocchi di neve.
Non sono più microscopiche palline ghiacciate, ora sono panciuti fiocchi neve che si posano sul terreno senza dissolversi.
Passa un altro quarto d’ora e il sentiero è coperto di neve. Tutto intorno a me è coperto da una coltre bianca di 10 centimetri. I fiocchi di neve riflettono la luce della frontale e la visibilità diminuisce drasticamente. Seguire le balisse diventa un’impresa. Il vento è molto forte, probabilmente 60/70kmh. A causa del wind-chill la temperatura percepita è molti gradi sotto lo zero. Unica fortuna è che il vento soffia alle mie spalle.
Nonostante la tormenta la situazione sembra sotto controllo, ma dopo pochi minuti la maledizione di Montezuma decide di ritornare a farmi visita. Questa volta la dissenteria non si limita a togliermi solo le forze ma, forse a causa del freddo, mi causa dei fortissimi crampi addominali. Sono costretto a fermarmi più volte, cercando di ripararmi dal dietro i pietroni più grossi dal vento e dagli sguardi dei due poser che nel frattempo mi hanno raggiunto (per dare un’idea dei due personaggi, lei è coperta con uno di quegli anti-vento trasparenti a poncho che si usano durante i temporali estivi…sigh!).
Ogni volta che mi fermo per fare ciò che devo, spogliarmi è un’impresa e un’agonia allo stesso tempo: da un lato devo togliere gli innumerevoli strati di vestiario (coprirsi a cipolla funziona fino a quando rimani vestito) e dall’altro mi espone al freddo e mi gela le ossa fino al midollo.
Quando riesco finalmente ad arrivare al ristoro e bivacco di emergenza del colle Pas Entre Deux Sauts è una vera liberazione. Ho un solo pensiero in testa: entrare a dentro il piccolo bivacco di plexiglass e riscaldarmi un po’.
Purtroppo a causa delle innumerevoli soste sono stato preceduto dai due poser che si sono appropriati del bivacco. Si sono chiusi dentro e non fanno entrare nessuno perché lei si sta cambiando. Il cambio d’abito della signorina dura almeno una ventina di minuti…probabilmente si è fatta anche la piega ai capelli! Fuori io e altri due concorrenti stiamo congelando sotto il tendone teso tra il bivacco mobile in plexiglass e un piccolo modulo prefabbricato (come quello dei cantieri edili) usato dalle guide per riposare.
Per fortuna un volontario ha pietà di noi e accende un fornello a gas (che servirebbe solo per cucinare) per tentare di scaldarci un po’.
La situazione al ristoro è abbastanza critica: la neve si sta accumulando abbondante sul telo del tendone e i volontari a intervalli di dieci minuti sono costretti a liberarlo dalla neve per evitare che collassi.
I volontari sono molto arrabbiati con i due poser chiusi all’interno del bivacco e gli chiedono più volte ad alta voce di aprire la porta ed uscire. I due se ne fregano e fanno finta di non sentire, anche perché più che cambiarsi ora stanno proprio dormendo.
L’atmosfera sta per degenerare ma, all’improvviso, si apre la porta del modulo prefabbricato. Due guide del soccorso alpino escono di corsa e urlano:
“Tra cinque minuti non vogliamo più nessuno qui. Dobbiamo partire per cercare dei dispersi e questo è un bivacco di emergenza, non un ristoro e tantomeno un albergo. Via tutti subito!!!” Poi si rivolgono ai volontari e con tono deciso, ma senza urlare, gli impartiscono le loro indicazioni: “Andiamo a cercare 8 dispersi del Glaciers: 6 sono scesi verso il Bonatti e altri 2 dal Malatrà verso la Svizzera…quando torneremo non vogliamo trovare nessun concorrente, il bivacco vuoto e pronto per ricevere i dispersi ed eventuali feriti!” I due poser svegliati dalle urla escono dal bivacco con aria serafica.
Io e gli altri 2 concorrenti che si erano fermati a riscaldarsi con me intorno al fuoco li guardiamo con disprezzo e ripartiamo immediatamente.
Rinuncio al selfie di rito per la raccolta fondi del Comitato Maria letizia Verga, il vento è troppo forte e il freddo troppo intenso…l’ultimo colle rimarrà senza foto e prova del mio passaggio!
Sto bene ma ho freddo, un freddo profondo che mi gela le ossa.
Succede sempre quando mi fermo ad un ristoro a riposare un po’ e a bere un po’ di tè caldo con i biscotti. Quindi parto correndo a ritmo abbastanza sostenuto per riscaldarmi.
La neve copre la traccia del sentiero ma non si scivola, le suole Vibram garantiscono un ottimo grip. La visibilità non è buona e i fiocchi di neve riflettono la luce della frontale rendendo quasi impossibile vedere le balisse. Fortunatamente conosco questa parte del percorso come le mie tasche…e posso proseguire praticamente ad occhi chiusi.
In breve distanzio i 2 concorrenti partiti con me e quando arrivo all’alpeggio di Arminaz non vedo più la luce delle loro frontali dietro di me. Correre da solo è un rischio, ma fermarsi ad aspettare altri concorrenti e raffreddarsi è ancora più pericoloso.
Non ho il tracker GPS dell’organizzazione ma ho il mio fido Garmin InReach che mi dà sicurezza: in caso di bisogno basta che schiacci il tasto di emergenza per alcuni secondi per inviare un segnale di soccorso con la rete satellitare, anche dove non c’è copertura cellulare.
La tormenta non accenna a placarsi ma scendendo verso il torrente d’Arminaz il vento sembra calare leggermente. Arrivato al ponte di metallo che supera il torrente sono costretto ad un nuova fermata, purtroppo la dissenteria mi colpisce ancora. Mi accuccio sotto la prima arcata del ponte per cercare un po’ di riparo dal vento e faccio quello che devo. Mentre evacuo arrivano i 2 concorrenti ripartiti con me dal bivacco. Ho la frontale spenta e mi passano sopra senza neanche vedermi. Li lascio allontanarsi e poi mi rivesto con calma e provo a ripartire. Questa ultima scarica mi ha lasciato veramente senza forze: mi gira la testa, non sto in piedi e ho la mente insonnolita e annebbiata.
So che da qui non manca molto al rifugio Bertone, ma sono veramente prostrato. Raggiungo con grande fatica e lentamente Arminaz Desot, poi salgo verso le baite di Lechere e infine arrivo al bivio sopra l’alpeggio di Leuchey. Qui la tormenta si fa più forte e il vento aumenta di intensità diventando quasi frontale. Comincio a barcollare e la mia mente comincia a intorpidirsi e spegnersi. Il sentiero a mezza costa è completamente aperto, provo di ripari. Sono completamente in balia della tempesta.
Per un attimo penso di fermarmi, avvolgermi nei teli termici e dormire o riposare un po’.
Sono stanco, stanchissimo, mi si chiudono gli occhi, voglio solo dormire…forse non farà più tanto freddo! Poi torno in me, ho un attimo di lucidità e mi ritorna in mente quello che è succeso a Matteo Grassi al Tor Des Geants 2016: rischiò di morire di ipotermia proprio in questo punto. Solo il provvidenziale intervento di alcuni malgari che l’avevano trovato semi-svenuto sul sentiero e l’avevano portato al caldo della loro malga l’aveva salvato da morte sicura.
Spalanco gli occhi e comincio a cantare a squarciagola le canzonette popolari sconce che mi ha insegnato mio padre quando ero bambino. È l’unico modo per rimanere sveglio e vigile. Non ho forze ma comincio a correre come un pazzo controvento. Ho paura di morire, ma dentro di me, nel mio inconscio so che oggi non morirò. Devo solo soffrire, tenere duro, restare sveglio e continuare a correre. Non si vede niente, la frontale illumina solo la neve che scende a 30 centimetri dai miei occhi, ma conosco bene la balconata della Val Ferret…devo correre, anche con gli occhi chiusi, non fermarmi mai. Ho paura e la paura mi da la forza di continuare e mi tiene sveglio. Ogni tanto incespico, ma non cado. Barcollo ma non mollo…voglio arrivare al rifugio Bertone, per raggiungere la salvezza, ma, soprattutto per far smettere questa sofferenza.
Continuare a correre e tenere gli occhi aperti è dolore puro. Ho sonno, un sonno che fa male…poi ad un tratto come fosse un miraggio nel deserto vedo delle luci: sono le 6:04, è il rifugio Bertone, o meglio, il tendone che fa da ristoro al Mont De La Saxe: sono salvo…anche questa volta ho portato a casa la pellaccia!
So che può sembrare esagerato, ma ho la consapevolezza di aver rischiato la vita e se sono vivo è solo merito della mia tenacia.
Sotto il tendone del ristoro mezzo sventrato dalla neve regna il caos: il vento ha portato via quasi tutto e rovesciato i tavoli con il cibo e le bevande. Sembra di essere in guerra o che sia passato un uragano. Come nel ristoro precedente c’è un bivacco in plexiglass elitrasportato. Voglio entrarci e dico alle 2 volontarie che presidiano il ristoro che devo riposare. Loro mi dicono che non si può entrare nel bivacco. Non le ascolto nemmeno, ne sposto una di peso, apro la porta del bivacco e mi ci butto dentro, crollando sulla piccola panca metallica all’interno. Una volontaria reagisce, sta per dire qualcosa, ma l’azzittisco: “Sto male…sto congelando!” Mi guarda in faccia, sono bianco come un cadavere (me lo confermerà lei qualche minuto dopo) e si spaventa un po’…a questo punto capisce la situazione e si scusa. Hanno ricevuto ordine dalle guide di non far entrare nessuno nei bivacchi di emergenza…ma in effetti questa è un’emergenza!
Mi portano subito del tè caldo e un po’ di biscotti e crostatine, mi coprono con delle coperte e mi coccolano come delle mamme. Mi sento come un naufrago appena salvato dal mare in tempesta.
Nel giro di una ventina di minuti, al caldo del bivacco e con le cure delle 2 volontarie ho ripreso il mio colore naturale e mi sono rimesso in forze. Ringrazio le volontarie: devo ripartire subito, finchè sono in forze. Voglio scendere a Courmayeur e finire questo Tor il prima possibile. Lascio il tendone proprio quando comincia timidamente ad albeggiare. Passo il rifugio Bertone e dopo pochi metri la neve comincia a scomparire dal sentiero. Corro in discesa saltellando da una pietra all’altra, cercando di evitare le radici sporgenti. La mia corsa non è fluida, sono rigido e inpacciato, ma corro verso il traguardo! Visualizzo il gonfiabile dell’arrivo nella mia mente e intanto corro nelle strade quasi deserte della periferia di Courmayeur. Non c’è gioia in me, solo sollievo.
Le poche persone che incontro mi applaudono, ma io non sono felice, sono triste ma ricambio con un sorriso il loro incitamento per non deluderli.
Questo Tor, purtroppo, non mi piace più…mi fa proprio cagare!
Metaforicamente e non solo…
Senza quasi accorgermene arrivo in via Roma. Sto correndo senza convinzione come un automa. Voglio solo che questo Tor finisca…nel 2018 in questo stesso tratto di strada desideravo che il Tor non finisse mai e non volevo arrivare al traguardo.
Arrivo nel corridoio transennato finale con un velo di tristezza e malinconia sugli occhi.
Non ci sarà nessuno ad aspettarmi: mio padre è morto, mia moglie sta lavorando, mia figlia grande è in università, mia figlia poco piccola è a Miami a studiare, mia madre non sta bene e non può spostarsi da casa sua in Toscana!!!
Ma come nei migliori film la vita non smette mai di sorprenderci e c’è sempre un colpo di sorpresa finale: nel grigiore di via Roma compare il mio amico Marco, il Poletti, con il suo piumino verde e le stampelle (si è rotto un tallone una settimana fa) che mi urla: “Vai Carlissimo, sei arrivato!!!”…poi mi giro e vedo Ettore Pettinaroli che mi sorride.
Non sono felice per questo Tor, ma sorrido per loro che sono qua a ricevermi alle 7:38 di un uggioso sabato mattina di settembre….questo sì che mi rende felice!
Nonostante tutto taglio il traguardo sorridendo (anche se è un sorriso tirato).
Abbraccio prima Marco e poi Ettore che mi stringe forte, come un padre abbraccia il figlio che torna dalla guerra, e mi sussurra all’orecchio: “Sono felice che tu sia arrivato al traguardo sano e salvo!”
Detto da lui che fa parte dell’organizzazione mi fa capire che qualcosina, la scorsa notte, scendendo dal Malatrà l’ho rischiata!
EPILOGO:
Sono passati 2 mesi dalla fine del Tor 2018. Sto bene e ho appena finito di scrivere il racconto dell’ultima tappa. Ci ho messo tanto a scrivere di quest’ultima tappa, forse troppo. Ho avuto un sacco di impegni lavorativi, alla sera ero stanco e i week end ero impegnato, ma queste sono solo scuse, anche se vere. Ci ho messo tanto a scriverla perché volevo essere sicuro di aver metabolizzato e digerito per bene il mio ultimo Tor.
Sono sicuro che questo è stato e sarà il mio ultimo Tor.
Tornerò su quei sentieri perché li amo come non amo nessun altro sentiero al mondo, ma non ci tornerò in gara: rovinerei solamente il bellissimo ricordo di questi 2 Tor.
Questo Tor 2022 come ho già detto mi ha fatto “cagare” in molti sensi, non è più il Tor che conoscevo…quel Tor, il mio Tor, non esiste più!
Non è più il Tor, ma io lo amo e continuo ad amarlo. È stato un sogno. È stata la più bella avventura della mia vita, soprattutto la prima volta, ma ora è finita. Ho nuovi progetti in programma, altrettanto stimolanti e su altri sentieri in Italia e nel mondo. Sicuramente però, so che tutto quello che farò, lo farò abbinandoci dei progetti di charity, perché solo così le nostre fatiche di ultra-trailer acquistano un vero significato!
Grazie di avermi letto e spero in futuro di offrirvi nuovi racconti di altre avventure altrettanto stimolanti!
Come dicono i giovani: stay tuned.
PS: ho fatto tutti gli esami di questo mondo dopo il Tor e per fortuna non ho niente.
La dissenteria che mi ha tormentato al Tor è stata probabilmente il frutto di una gastroenterite avuta ad agosto e non curata adeguatamente. È bastata una settimana di antibiotico intestinale per rimettermi in sesto.
Re: Tor Des Geants (Ao) 11.09.2022
Grazie Off!
Mi ha fatto ritornare ancora sui sentieri della Valle.
Ho letto il tuo ultimo racconto con un pizzico di malinconia ma anche con rabbia e senso di angoscia.
Malinconia perché anche se il viaggio è stato anche per me tanta sofferenza, mi ha comunque ancora una volta sorpreso per le grandi emozioni che queste montagne riescono a trasmettere. Mi piacerebbe essere ancora lì, libero tra le vette
Rabbia perché, ancora di più leggendo il tuo ultimo racconto, mi sono reso conto che con una gestione diversa dell’ultimo giorno sarei riuscito ad arrivare tranquillamente a Courmayeur. Due ore e mezza a Ollomont e soprattutto altre due ore e mezza a Bosses senza ascoltare quella vocina, che ha sempre ragione, che mi diceva di andare via velocemente e invece fidandomi ( e perché non avrei dovuto farlo?) delle informazioni, completamente errate, fornitemi dall’organizzazione.
Rabbia perché mi rendo conto che sta avvenendo uno scollamento tra il Tor gara e il Tor della gente della Val D’Aosta. Tra chi organizza e chi fa il volontario, il fatto che i rifugisti e i volontari non stiano più dalla parte della “dirigenza” è per me molto grave e in tutta la gara ai ristori si percepiva chiaramente questa specie di disagio.
Angoscia perché son sempre più convinto che sia stato un mezzo miracolo che nessuno sia finito seriamente nei guai. Anche tu mi confermi che c’erano tanti concorrenti senza ramponcini e mal vestiti. Cosa sarebbe successo se, nella bufera, uno di loro, di notte e stremato fosse scivolato o si fosse perso scendendo dal Malatrà?
Sono un sostenitore della responsabilità individuale di chi si iscrive a queste gare ma è indubbio che chi organizza ha il dovere di informare e ben consigliare chi, soprattutto all’ultimo giorno di gara, è magari poco lucido e fisicamente debilitato.
Il giorno della premiazione non c’era quella gioia, quell’energia e quell’emozione che avevo trovato nel 2018. Io non mi sono messo la medaglia al collo perché non me la sentivo mia. Quando ho riabbracciato Andrea, Augusto e Carlo è stato un abbraccio amaro, due anni fa ero pronto a ripartire per rifarlo, quel giorno no. Credo che cercherò comunque di ritornare perché vorrei provare a rivivere quella sensazione.
Mi hai molto incuriosito sugli aneddoti della storia antica della Valle. Dove hai avuto queste informazioni? C’è qualche libro che le racconta o è il passaparola dei racconti tra le generazioni?
Mi ha fatto ritornare ancora sui sentieri della Valle.
Ho letto il tuo ultimo racconto con un pizzico di malinconia ma anche con rabbia e senso di angoscia.
Malinconia perché anche se il viaggio è stato anche per me tanta sofferenza, mi ha comunque ancora una volta sorpreso per le grandi emozioni che queste montagne riescono a trasmettere. Mi piacerebbe essere ancora lì, libero tra le vette

Rabbia perché, ancora di più leggendo il tuo ultimo racconto, mi sono reso conto che con una gestione diversa dell’ultimo giorno sarei riuscito ad arrivare tranquillamente a Courmayeur. Due ore e mezza a Ollomont e soprattutto altre due ore e mezza a Bosses senza ascoltare quella vocina, che ha sempre ragione, che mi diceva di andare via velocemente e invece fidandomi ( e perché non avrei dovuto farlo?) delle informazioni, completamente errate, fornitemi dall’organizzazione.
Rabbia perché mi rendo conto che sta avvenendo uno scollamento tra il Tor gara e il Tor della gente della Val D’Aosta. Tra chi organizza e chi fa il volontario, il fatto che i rifugisti e i volontari non stiano più dalla parte della “dirigenza” è per me molto grave e in tutta la gara ai ristori si percepiva chiaramente questa specie di disagio.
Angoscia perché son sempre più convinto che sia stato un mezzo miracolo che nessuno sia finito seriamente nei guai. Anche tu mi confermi che c’erano tanti concorrenti senza ramponcini e mal vestiti. Cosa sarebbe successo se, nella bufera, uno di loro, di notte e stremato fosse scivolato o si fosse perso scendendo dal Malatrà?
Sono un sostenitore della responsabilità individuale di chi si iscrive a queste gare ma è indubbio che chi organizza ha il dovere di informare e ben consigliare chi, soprattutto all’ultimo giorno di gara, è magari poco lucido e fisicamente debilitato.
Il giorno della premiazione non c’era quella gioia, quell’energia e quell’emozione che avevo trovato nel 2018. Io non mi sono messo la medaglia al collo perché non me la sentivo mia. Quando ho riabbracciato Andrea, Augusto e Carlo è stato un abbraccio amaro, due anni fa ero pronto a ripartire per rifarlo, quel giorno no. Credo che cercherò comunque di ritornare perché vorrei provare a rivivere quella sensazione.
Mi hai molto incuriosito sugli aneddoti della storia antica della Valle. Dove hai avuto queste informazioni? C’è qualche libro che le racconta o è il passaparola dei racconti tra le generazioni?
Re: Tor Des Geants (Ao) 11.09.2022
Ciao Corry. Come raccontavo nel resoconto della quarta tappa, molte leggende e storie me le aveva raccontate un ragazzo danese nel 2018. Poi mi sono andato a cercare conferme e approfondimenti da solo sul web e su alcuni libri di leggende valdostane.
Re: Tor Des Geants (Ao) 11.09.2022
Ciao Corry. Come raccontavo nel resoconto della quarta tappa, molte leggende e storie me le aveva raccontate un ragazzo danese nel 2018. Poi mi sono andato a cercare conferme e approfondimenti da solo sul web e su alcuni libri di leggende valdostane.
Re: Tor Des Geants (Ao) 11.09.2022
uff Carlo, quante storie per una corsetta nella neve
E comunque io non ero lì per te. Stavo cercando di rabbonire una tizia sanmarinese arrivata incacchiata per colpa di uno che "concimandole" il sentiero le aveva fatto sporcare le scarpe. Poi quando ti ha visto arrivare è scomparsa

E comunque io non ero lì per te. Stavo cercando di rabbonire una tizia sanmarinese arrivata incacchiata per colpa di uno che "concimandole" il sentiero le aveva fatto sporcare le scarpe. Poi quando ti ha visto arrivare è scomparsa
Re: Tor Des Geants (Ao) 11.09.2022
ettoreptt ha scritto: ↑28/11/2022, 0:06 uff Carlo, quante storie per una corsetta nella neve![]()
E comunque io non ero lì per te. Stavo cercando di rabbonire una tizia sanmarinese arrivata incacchiata per colpa di uno che "concimandole" il sentiero le aveva fatto sporcare le scarpe. Poi quando ti ha visto arrivare è scomparsa

Beh, grazie comunque, soprattutto per il cappuccino con brioche...
è stato uno dei più graditi della mia vita!
- Dariogrizzly_1981
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Re: Tor Des Geants (Ao) 11.09.2022
Ciao Offriends,
davvero intensa e bella l'ultima parte di racconto!
Capisco il rischio che hai corso nelle ultime ore di gara. Io mi ero già spaventato al Gran Trail Courmayeur del 2018 quando scoppiò quel mega temporale fra il lago Combal e il rifugio Maison Vieille (se ti ricordi ci siamo conosciuti proprio dentro al rifugio).
Fino a quando sei stato in linea con i tempi per chiudere in 120 ore?
Io, prima che l'infortunio mi fermasse, sono arrivato ad Oyace in 108 ore e da alcuni calcoli che ho fatto avrei chiuso in 130-135 ore.
Ciao,
Dario
davvero intensa e bella l'ultima parte di racconto!
Capisco il rischio che hai corso nelle ultime ore di gara. Io mi ero già spaventato al Gran Trail Courmayeur del 2018 quando scoppiò quel mega temporale fra il lago Combal e il rifugio Maison Vieille (se ti ricordi ci siamo conosciuti proprio dentro al rifugio).
Fino a quando sei stato in linea con i tempi per chiudere in 120 ore?
Io, prima che l'infortunio mi fermasse, sono arrivato ad Oyace in 108 ore e da alcuni calcoli che ho fatto avrei chiuso in 130-135 ore.
Ciao,
Dario