La Marathon des Sables Perù è una corsa di 250 km a tappe, in piena autosufficienza, nel deserto. Detta così sembra più che altro una prova estrema, ma Francesco Rigodanza che è andato a provarla ci racconta di un'avventura che nasconde un sacco di esperienze, persone ed emozioni. Di quelle che non si dimenticano facilmente.
- parte I -
“Ho speso gran parte dei miei soldi per alcool, viaggi e gare di corsa. Il resto l’ho sprecato”
George Best, se avesse fatto la Marathon des Sables
Sono le due di notte e mancano cinque ore al volo che da Venezia dovrebbe portarmi a Lima. La situazione è drammatica. Alla mia destra c’è un vecchio paio di scarpe da strada a cui sto cercando di attaccare il velcro (seguendo un video in spagnolo su Youtube). All’altro lato c’è il cibo che dovrebbe sfamarmi per 8 giorni nel deserto (3 kg di frutta secca, qualche merendina, due risotti in busta e della Nutella). Io sono seduto sulla valigia in cui ho già chiuso l’attrezzatura da viaggio, valigia di cui ho dimenticato il codice e che quindi ora sto cercando di aprire a gentili martellate.
©Francesco Rigodanza
La Marathon des Sables – Perù è una corsa di 250 km nel deserto, a tappe di 30-40 km, in piena autosufficienza (viene fornita solo acqua e tenda). Cosa ci vado a fare io laggiù? A correre così tanti chilometri nella sabbia? Io che amo il freddo e la salita? Cosa ci faccio con uno zaino da 20L pieno pieno quando di solito mi lamento già di un piccolo marsupio? E poi per queste cose le persone si allenano meticolosamente mesi e mesi mentre io ho saputo di questa opportunità 5 giorni fa, sono completamente inesperto e non corro da due mesi. Sono solo tanto stanco e vorrei dormire un po’. Fortuna che mi sono addormentato così. Con tutti questi dubbi. Steso su una valigia malamente scassinata. Con i tagli alle mani. Da un letto vero non mi sarei più rialzato. E invece dopo un pessimo micro-sonno sono partito. È iniziato il mio viaggio.
DAY 0 CAHUACHI
“A cosa penserai tutte quelle ore nel deserto?” “A niente, e sarà bellissimo”
Io il giorno prima di partire
Normalmente i momenti prima del via mi guardo attorno, studio gli altri. Sembrano sempre tutti più preparati di me. Hanno le scarpe giuste, i vestiti compressivi, un senso cromatico e l’aria di chi sa a cosa va incontro. È sempre così, prima di ogni gara. Qua è anche peggio, perché “i momenti prima del via” durano due giorni e questa volta sono davvero tutti più preparati di me. E io sono solo, non conosco nessuno, perché non imparo bene questo cavolo di spagnolo? O perché non ho mai dato un’occasione al francese oltre al "Voulez-vous coucher avec moi, ce soir?” imparato da Lady Marmelade? Arrivati in tarda notte al primo bivacco passo la prima nottata così, da solo, dormendo male in una tenda monoposto chiedendomi se passare le giornate a friggersi gli occhi con la playstation non fosse un’idea migliore. Solo io e i miei dubbi.
©Francesco Rigodanza
Al risveglio mi rendo finalmente conto di dove sono. Mi trovo circondato da centinaia di piccole tende arancioni come la mia. Saranno la nostra casa per la prossima settimana. Queste sono divise in piccoli gruppi di sei persone. Saranno la nostra famiglia per la prossima settimana. Destino ha deciso che sia circondato da americani. Dan, Terry, Lloyd e Brien sono californiani (da quel che mi hanno spiegato negli Stati Uniti è la casa del Trail) e sono già esperti di Ultra e di Marathon des Sables. Beh in realtà Lloyd è inglese, il suo accento lo tradisce subito, ma sembra aver lasciato una bella fetta di cuore nella West Coast visto come ne parla. Per fortuna oltre a loro c’è Edward, proviene dalle spiagge a nord di Miami e, come me, è un principiante del deserto. Come ogni incontro tra uomini che si rispetti è subito una gara a chi ce l’ha più lunga e chi se ne è fatte di più. Si parla di corse. Ovviamente. E in un mondo a stelle strisce in cui una gara per essere considerata Ultra deve essere più lunga di 50 miglia la mia CCC vale come un due di spade. Però sono catturato da tutti questi posti di cui non ho mai sentito parlare, di un mondo così lontano con crew e pacer, cacciatori di golden tickets, frequentatori abituali di aid stations e celebrazione di Fastest Kwown Time. Starei tutto il giorno ad ascoltarli, ho un debole per gli US, ho conosciuto troppe persone e storie per rimanerne indifferente e con questi racconti so già che la mia testa stanotte si perderà laggiù. Starei a sentirli per ore. Ma non si può. Ci sono cose importanti da fare.
Per esempio sarebbe ora di preparare lo zaino. Anzi, sarebbe ora di scegliere lo zaino, perché ne ho portati due! Inizio a infilare tutto, materiale obbligatorio, cibo, vestiti. Manca il sacco a pelo e già non riesco a chiuderlo tutto. Svuoto e riempio. Ripeto per tre volte. Alla quarta decido che i cioccolatini del calendario dell’avvento sono superflui, che il piumino è di troppo e che il pentolino posso tenerlo per 250 km nella tasca dei pantaloncini. Si chiude! Evvai. E una volta aggiunta una cinghia sembra anche bello stabile. Un po’ di cauto ottimismo. Chiudo la valigia e mi metto in coda per il controllo materiale, unico impegno obbligatorio della giornata. Va bene essere impreparati ma con il deserto è meglio non scherzare troppo. Pertanto l’organizzazione controlla attentamente peso dello zaino (che deve essere tra i 6.5 e i 15 kg) e le kcal di cibo (almeno 14000 kcal). Ispeziona il certificato medico, fornisce le pastiglie di sale da integrare, applica il tracker GPS e se va tutto bene ti dà pettorale con nome e nazionalità. A quel punto bisogna per forza partire.
L’attesa è snervante, quasi nessuno parla più di gare, si cerca di riposare come si può, all’ombra di qualche albero o dei camion. Fa già troppo caldo, il pensiero della neve sulle Alpi era molto più rassicurante di questa sabbia infuocata. Ultimi preparativi, qualche rito scaramantico, qualche rito più ufficiale, l’ultima cena di cibo vero, ultima notte da riposati. Ma io ho già fame e pagherei 20 euro per una bella Coca-Cola ghiacciata.
DAY 1 CAHUACHI / COYUNGO – 37.2 km
“Non è il caldo, è l’umidità che ti frega”
Vecchio detto del deserto
È finalmente il giorno di partire. Via il dente, via il dolore. Sono 24 ore che si respira sabbia e adrenalina. La start line è studiata apposta per pomparci al massimo. Ci sono striscioni ovunque, i soldati ci fermano per farsi dei selfie e la musica rimbomba a tutto volume. Siamo carichissimi. Non c’è da sorprendersi che al via tutti si mettano a correre, tutti tutti, anche chi si ritiene camminatore o chi è partito con uno zaino di 15 chili per nascondere il frigobar rubato in hotel.
Nonostante l’ottimismo di ieri mi bastano 3 km per capire tutte le cose che ho sbagliato nella preparazione dello zaino: il tracker GPS mi taglia la gola, gli spallacci grattano il collo, le noccioline sottovuoto sbattono sulle scapole e le scatolette di tonno vogliono sostituire i dischi vertebrali. Sono passati pochi minuti e ho già più segni di un campo da hockey.
Fortuna che il tratto veloce finisce presto, dopo i primi 14 km si entra nel fondo sabbioso del Rio Nazca e addio ambizioni di corsa veloce. È la mia prima esperienza sulla sabbia (tutti quegli anni a Bibione passati dentro le sale giochi…) e da subito capisco che non è un elemento in cui sono a mio agio. Il piede sprofonda e scivola, tanta fatica per pochi metri. Invidio Rosio, la più forte tra le ragazze peruviane. Si trova pochi metri davanti a me e sembra galleggiare nell’aria. Si muove a piccoli passi, molto veloci, sembra essere questo il segreto.
©AlexisBerg_MDS Perù
Non è la mia corsa, io saltello ad ampi balzi. Non c'entro niente. Mi appello con forza al mio mental coach Luis Fonsi. Solo una cosa bisogna ripetere in questi casi “Pasito a pasito, suave suavecito”. Funziona. I chilometri passano, lentamente ma passano a piccoli inesorabili passetti. Siamo ancora in una regione relativamente abitata e da qualche abitazione si affacciano dei peruviani curiosi. Tutti fanno la stessa domanda: “Da donde? Da donde?” Deve essere insolito vedere un mondo passargli sotto gli occhi. Le prime due volte esprimo con orgoglio la mia italianità, alla terza vengo dalla Norvegia, alla quarta dall’Ohaio. Poi inizio a inventarmi stati come la Svetopia meridionale e la Grapponia. Intanto la temperatura si alza, il sole batte forte e in questo canyon non gira un filo d’aria. I compagni di tenda parleranno di temperature tra i 90 e 110°F, numeri che da buon europeo non hanno alcun significato. Diciamo che faceva troppo caldo e basta. Iniziano a essere quasi 4 ore, c’è già da essere orgogliosi. Passo l’ultimo check point, non dovrebbe mancare tanto.
Finalmente usciamo dal canyon sabbioso, un po’ di venticello ora è grasso che cola. Ci è stato promesso anche un guado del fiume, ora che il Rio Nazca si tuffa nel Rio Grande. Dopo aver deciso che anche camminare è cosa dignitosa e essermi un po’ trascinato negli ultimi chilometri, tra le botte dello zaino e la disidratazione galoppante, finalmente vedo il guado e il traguardo di giornata. C’è anche un ponticello di legni e arbusti per non bagnarsi i piedi. Perché non dovrei? Lo scopro due metri dopo: se il velcro si bagna la ghetta viene via. Altra nota da aggiungere alla lista degli “stupidi errori da fare nel deserto”. Non prima di aver tagliato questo mio primo traguardo e aver terminato i primi 38 km (ridi ridi che ne mancano solo 200!).
Non sapevo cosa aspettarmi ma è stata dura. Mi guardo intorno e non devo essere il solo ad averlo pensato. I volti sembrano già stremati. Molti arrivano e pensano subito a riposare un po’ senza preoccuparsi di bere, mangiare o montare la tenda. Basta una qualsiasi superficie piana e la stanchezza funziona da ottimo sedativo. Tra i miei compagni di tenda Terry è stato il primo ad arrivare, ma ha la faccia bianca e continua a vomitare. Brien e Lloyd sono arrivati un paio di ore dopo. Il primo ha steso la tenda e ci si è addormentato sopra, il secondo sta lottando con la propria testa per cogliere un po’ di divertimento in questa esperienza. Quando ormai siamo vicini al tempo limite arrivano anche Dan ed Edward e la scena di sonno istantaneo si ripete. Alzo lo sguardo e osservo il bivacco. Sembra che al posto dell’acqua ci abbiano dato la camomilla. Tutti dormono e giacciono nelle posizioni più strane. Se tutta la settimana sarà così andiamo bene! Ora una Coca-Cola ghiacciata è quotata 50 Euro.
DAY 2 - COYUNGO / SAMACA – 42.2 km
“È solo un po’ di brezza”
Tipica espressione di un triestino davanti a una tromba d’aria
La notte è stata tutt'altro che tranquilla. Oltre a Edward che russa come una mietitrebbia sono stato risvegliato più volte da rumori di conati di vomito. È brutto sentire le persone stare male. È brutto sentirle e non poter fare niente se non pensare che ti potrebbe toccare la stessa sorte.
Mi sono svegliato che stavo bene, per fortuna l’incontro di pugilato con il mio zaino mi ha rallentato quanto bastava per non tuffarmi in una crisi senza ritorno. Però ho paura. Ho paura che tocchi anche a me, vorrebbe dire addio viaggio, addio corse, addio deserto. Quando mi risveglio definitivamente alle 5 (alla MdS ci si sveglia presto!) mente e corpo hanno accettato l’idea che è meglio andare piano, prendersela con comoda e fare quello per cui si è volato fino a qua: godere dell’avventura. Purtroppo Terry e Lloyd non sono di questo parere. Il primo ha passato la notte a vomitare, ha un bel colorito cadavere e il viso di chi potrebbe svenire al primo chilometro. Il secondo ha dato ascolto alla parte pessimista di sé e ha deciso che la MdS in Perù è improvvisamente la cosa peggiore che gli potesse capitare. Brutti scherzi può giocare la mente. Si ritirano e non li vedremo più. Mentre noi chiudiamo la tenda e ci prepariamo ad un altro giorno con le scarpe piene di sabbia.
©AlexisBerg_MDS Perù
Prima di venire in Perù non conoscevo il deserto. Le mie conoscenze si basavano su film, desktop di Windows e cartoni animati. La prima immagine che mi viene in mente infatti sono le dune del film Disney Aladdin. Nella mia ingenuità me lo dipingevo esattamente così, una distesa infinita di sabbia bianca la cui forma viene continuamente mutata dal vento. Tutto così, per chilometri e chilometri. Ovviamente mi sbagliavo, il deserto è molto di più. Per fortuna, perché si è rivelato divertentissimo. Però, intanto, ero stato un po’ deluso anche io dalla prima tappa. Avevo attraversato qualche casa, il letto di un fiume, incrociato tanti alberi. Al di sotto delle mie aspettative, ma per fortuna, da qui in avanti sarei stato solo meravigliato da paesaggi mozzafiato. Ma io ancora non lo sapevo.
I primi 6 chilometri della seconda tappa sono tutti in salita. Già questo è strano. Il fondo è duro, quasi una strada ma intorno a me qualcosa inizia a cambiare. Il paesaggio diventa lunare, niente di niente per chilometri e chilometri. Solo montagne rocciose e dune. Giallo e rosso in tutte le tonalità, che combinati con l’azzurro limpido del cielo rendono la vita facile ai fotografi in cerca di buon materiale. Anche se le mie foto sono più brutte di quelle dell’autovelox non mi tiro indietro, ogni due minuti mi fermo e scatto. Vorrei arrivare al traguardo con la memoria piena di immagini ma dopo 20 minuti il telefono è ricoperto da una patina marroncina di sabbia. Forse è meglio lasciar fare a quelli bravi e lanciarsi sulle prime dune che sono finalmente arrivate.
©JosueFernandez_MDS Perù
Vado dritto al sodo e le descrivo come ho fatto urlando quando mi sono lanciato giù dalla prima: “Che figata pazzesca!” Io pensavo a larghi e noiosi collinoni sabbiosi e invece è tutto l’opposto. Ogni duna è un bello strappetto di qualche metro in cui può essere necessario aiutarsi con le mani e da cui si scende frenati dalla sabbia. Come fosse neve fresca. Lo stesso divertimento.
Dal 10° al 20° km è solo dune. Ci si muove più lentamente ma quando ci si diverte il tempo scorre veloce. In questa ora e mezza ho imparato un altro stupido errore da deserto: il velcro va messo sulla punta delle scarpe. Io non l’ho fatto e ora ho abbastanza sabbia nelle scarpe per farci una pista di biglie con passaggi segreti e gallerie.
Quando pensavo che il meglio fosse ormai alle spalle il tracciato torna a sorprendermi. Prima una discesa vertiginosa dentro al canyon del Rio Ica, poi altri strappi da Vertical e dune più dolci. Ho smesso di fare foto ma questo non vuol dire che non possa rimanere a bocca aperta. E il fiato che risparmio camminando lo uso per chiacchierare lungo la strada. È qui, negli ultimi chilometri di giornata, che conosco il personaggio MdS 2018: Sir Charles Nicholas Good.
©iancorless.com_MDS Perù
Charles corre sotto la bandiera del Perù ma è inglese. È venuto qui per aprire un albergo sulla cordigliera andina (Chorup Moutain Lodge) e quindi si sente di appartenere orgogliosamente a entrambe le nazioni. Ha la parlantina facile e l’entusiasmo coinvolgente. La persona perfetta per vivacizzare qualche ora di solitudine. Solo che è anche uno stronzo competitivo e quindi dopo aver chiacchierato per una mezz’oretta affrontiamo gli ultimi 4 km a tutta. Nessuno dei due vuole mollare, anzi ci gasiamo a vicenda mentre superiamo quelli più normali. Impossibile non arrivare ridendo, eccitati da tutta quell’adrenalina rilasciata nello sprint finale.
Oggi sono tutt'altre sensazioni. Sarò lento ma non è importante. Posti bellissimi e poca stanchezza sono gli ingredienti per la giornata perfetta. Improvvisamente tutti i dubbi dei giorni precedenti sembrano svaniti. Potrei anche farcela. Forse. Perché la Marathon des Sables non è solo corsa ma è molto di più a partire dal bivacco in cui mi perdo in chiacchere con persone provenienti da ogni dove (tutti devono andarsene via da qua conoscendo luoghi e storia delle Piccole Dolomiti!). Tuttavia, poco dopo il nostro arrivo, il venticello che ci aveva accompagnato, rendendo la calura sopportabile, aumenta di potenza soffiando costantemente a 80 km/h. Il tranquillo pomeriggio di riposo si trasforma in una prova di resistenza. Montare la tenda diventa lavoro da ingegnere edile: zavorramento di sabbia e sassi e studio lato migliore per chiudersi in un rifugio tremante grande la metà del solito. Ho visto gente dormire con metà del corpo fuori, qualcuno ci ha rinunciato e si è chiuso nel telo di plastica come un bozzo, giuro che ho visto una ragazza tentare di aprire la tenda e volare via direttamente alle quarta tappa.
©iancorless.com_MDS Perù
È stato un pomeriggio difficile. Dan non è mai arrivato al traguardo, si è ritirato al 10°km e nessuno di noi lo ha più visto. Ora rimaniamo in tre. Il vento ha sfiancato tutti. E senza possibilità di stare fuori dalle tende, pena l’ibernazione, è fallito ogni tentativo di socializzazione. Tutti a letto alle 19.30 per cercare di dormire male. Mi sa che domani chiacchiererò ancora di più per strada. Stasera più che una Coca-Cola vorrei una casa di mattoni.
DAY 3 - SAMACA / OCUCAJE – 32.2 km
“Non è l’atleta più forte o il più intelligente a sopravvivere, ma quello che si adatta meglio al bivacco”
Charles Darwin alla MdS del 1859
©iancorless.com_MDS Perù
Se si considerano solo le tappe, la Marathon des Sables non è una prova così dura. I cancelli sono larghi, i chilometri giornalieri non così eccessivi. Come prestazione atletica non è più difficile di correre una maratona in 3h o diventare finisher della Western States. Ma il bello della MdS è che oltre alla corsa c’è molto di più. Bisogna organizzare uno zaino pesante, gestire il poco cibo e mangiare alimenti un po’ diversi dal solito (sognatevela una bistecca o della frutta fresca). Occorre adattarsi a tante situazioni difficili come il vento di ieri, l’assenza di bagni, il freddo della notte. Si deve tenere la testa lucida e ottimista ricordandosi di tanto in tanto che a quest'ora potevamo essere in ufficio al lavoro. E poi ci sono le vesciche. Ho scoperto che se mischi sabbia e sudore formi la carta vetrata. Ogni giorno c’è la fila alla tende medica per farsi sistemare i piedi, vai lì, ti sciacqui le gambe e aspetti che si liberi il primo spazio utile per farti bucare tutte quelle bolle pulsanti tra le dita, prima di tornare alla tua tenda fingendo una camminata normale.
Insomma la Marathon des Sables è formalmente una gara di corsa ma in realtà è più una prova di adattamento. Per farla breve ci vuole la testa, e che sia dura. La prova ne è il mio russoso vicino di tenda Edward. Ha 57 anni, è alto poco più di un metro e sessanta e nonostante l’assoluto salutismo ha un po’ di pancetta. È un aspirante Finisher, nulla di più. Ogni sera arriva tra gli ultimi, giusto un’ora prima del cancello, e ci mette sempre almeno un'oretta per riprendersi dalle fatiche di giornata. Però gli piace, è veramente contento di essere qui in mezzo al nulla e ogni volta che finisce una tappa gli luccicano un po’ gli occhi sapendo che il tanto aspirato traguardo si avvicina. È felice, è questo il segreto per completare la Marathon des Sables. Niente di più.
Oggi ci attende una tappa più corta, “solo” 32 km. Perché domani c’è il tappone dove è meglio arrivare con un briciolo di energia. Tante facce, questa mattina, sembrano provate dai continui schiaffi che il vento ha tirato alle nostre tende. La mia è una di queste. Stavo tanto bene ieri pomeriggio quanto male questa mattina. Sono senza forze. Rubo i bastoncini che tengono su le tende e mi avvio alla partenza, sperando che funzionino meglio delle mie gambe.
Per la legge di Murphy il vento c’è quando non serve. Su questa sabbia rossiccia farebbe tanto comodo e invece mi sto cucinando a fuoco lento. La descrizione del paesaggio sfugge alla mia memoria, penso solo a camminare e mettere un piede davanti l’altro. I primi 15 km sono stati un incubo.
Poi mi ricordo che da ieri mattina ho mangiato giusto una manciata di noccioline e un biscotto. Nonostante fossi partito con 20.000 kcal (rispetto alle 14.000 obbligatorie) avevo paura di finire le scorte di cibo. Che tonto. Forse il segreto è mangiare. Apro subito due biscotti, li mangio in circa quindici minuti (bisogna gustarseli tutti) e in breve mi sembra di rinascere. Non è che mi metto improvvisamente a correre veloce, ma almeno torno lucido. Giusto in tempo per il tratto finale. Gli ultimi 10 chilometri di oggi sono caratterizzati da una distesa infinita di piccole dune di sabbia gialla dove è difficile non sprofondare ad ogni passo e i bastoncini sono molto più di un semplice supporto psicologico. Si vede già il traguardo, è là in fondo, ma non arriva mai. E mentre recupero un po’ di terreno perso chi trovo? Di nuovo l’anglo-peruviano! Essendo due tizi competitivi, appena io e Charles ci vediamo, non diciamo niente ma iniziamo una serie di scatti e controscatti su ogni saliscendi in modo da sfinirci completamente. Quando arriviamo alla conclusione che siamo due deficienti e che potremmo rallentare e proseguire insieme, mancano ormai 4 km. Almeno salviamo un po’ di sudore, ce la raccontiamo e ufficializziamo la nostra Bromance con un arrivo mano nella mano a cui nessuno fa da spettatore. Ma è stato bello lo stesso.
©iancorless.com_MDS Perù
Effettivamente oggi fa veramente caldo e chi è già arrivato è ammassato sotto una grande tenda in cui l’ombra rende più tollerabile il pomeriggio afoso. Nonostante la tappa più breve ci sono meno chiacchere e sorrisi di ieri. Tanti dormono stesi nel minor spazio possibile. Starei volentieri a far loro compagnia con un po’ di sana nullafacenza ma ho l’obbligo di sfruttare gli insegnamenti di giornata. Ho tanta fame e devo assolutamente mangiare. Apro lo zaino e prendo subito una busta di risotto. Non ho niente per accendere un fuoco e quindi verso il contenuto in una bottiglia d’acqua, la chiudo e la metto al sole sperando accada qualcosa. Dopo un’ora di riscaldamento solare taglio la bottiglia con il coltello e assaggio. Fa schifo, è quasi crudo, con un risotto del genere in Italia finirei in prigione. Eppure lo divoro in due minuti, tutto, fino all’ultimo chicco completando la rinascita fisiologica che avevano iniziato i biscotti questa mattina. All’improvviso l’idea di correre l’indomani 70 km non fa più paura.
Oggi è anche il primo giorno in cui riceviamo notizie di amici e parenti. Pur essendo nel deserto, tramite il sito della manifestazione è possibile inviare una mail al giorno, mentre chi ci segue può scrivere dei brevi messaggi che verranno stampati e consegnati a mano. Saranno anche posti fantastici. Saremo anche duri e instancabili. Ma casa ci manca. Ne sono la prova le lunghe code per scrivere e ricevere mail. Oggi pomeriggio le ho fatte entrambe. È stato un buon modo per conoscere Gäelle. Al contrario dei miei saggi compagni di tenda, Brien e Edward, lei è giovanissima. Ha appena 20 anni e va forte (io ne ho 8 in più e mi sento vecchissimo), come me non sapeva niente di deserto, come me si sente più a suo agio su distanze intorno ai 40 km e come me se la sta prendendo comoda godendosi il viaggio. Tuttavia, mentre io dopo quattro giorni puzzo di morte e ho sabbia anche dentro al naso, lei sembra appena uscita dalla doccia. Non capisco come possa essere possibile. E non è l’unica, molte altre ragazze sono riuscite a mantenere una dignità che noi uomini abbiamo lasciato nella valigia fin dal primo giorno. Mi racconta che un sacco di persone la stanno seguendo da casa e a giudicare dalla quantità di messaggi ricevuti (se ne è andata con un plico di fogli sufficiente a riscrivere il Signore degli Anelli) sembra proprio vero. Spero sia così anche per me. Non ho avuto tempo di fare lo zaino, figuriamoci se riuscivo a spiegare dove e cosa stavo per andare a fare. Per fortuna qualcuno si è ricordato di me. Ma prima di immergermi nella lettura nostalgica osservo ancora una volta le persone che mi circondano. Sono affascinato da questi occhi che leggono attentamente piccole righe di testo e lentamente diventano rossi e un po’ umidi. Mi ritiro nella mia tenda e leggo anche io le mail dei miei genitori e di qualche amico. Non c’è niente di profondo, eppure bastano due incoraggiamenti e qualche frase affettuosa per iniziare a sentire qualcosa muoversi dentro. Forse sono un po’ stanco e senza le solite difese da uomo. Anche se non mi guardo allo specchio da giorni so che ora ho gli occhi un po’ rossi anche io.
Ma bando ai sentimentalismi. Ci sono ancora un sacco di cose da fare in questo assolato pomeriggio. Brien è arrivato, sta bene, ma Edward ancora non si vede. Sono preoccupato. Mi porto avanti e monto la sua tenda. Aspetto ancora. Arriva, cotto. Dice “gli amici dicono che sono come uno scarafaggio: duro a morire!”. Poi vede la tenda già montata, ringrazia felice e si addormenta un’oretta, ancora con lo zaino su. Faccio un sacco di tifo per questo tenace “scarafaggio”!
©iancorless.com_MDS Perù
Quando si sveglia è già ora di cena. La prima cosa che riesce a dire è “Francesco, ti vedo tanto dimagrito! Devi mangiare di più!” Ecco, ci mancava l’incarnazione della nonna in questo bivacco. Insiste a dividere un po’ del suo cibo con me e cosi dopo il risotto crudo mangio anche delle lasagne (che se le vedesse la mia vera nonna mi disconoscerebbe). Domani farò faville. E oltre a mangiare da re, in quei 50 cm2 parliamo di tutto. Lui mi racconta di come sia finito a vivere a Miami pur amando la montagna, della sua filosofia del running e di altre cose un po’ più intime. Io ricambio descrivendo tutte le mie montagne, la mia idea di Trail e altre cose un po’ più intime. Edward è proprio il vicino di tenda di cui avevo bisogno e quindi ancora di più voglio che arrivi in fondo a questa corsa.
Cerco di convincerlo che la tappa di 70 km vale la metà perché di notte i km sono gratis, la maratona arriva dopo il giorno di riposo e quindi non conta e gli ultimi 20 km sono solo uno sprint verso il primo bar. Non l’ho convinto molto. Ma gli piacciono le storie che racconto quindi gli prometto che alla fine di questa avventura, se arriva, questa storia avrà anche una versione in inglese. Ora è convinto. Forza Edward che manca poco. E stanotte non ho così tanta voglia di Coca-Cola.